MONOTEISMO: Evoluzione di pensiero o Rivelazione?

di Giuseppe Guarino

Non vi è stato insegnato che il monoteismo è la forma più elevata di religione? Ma è proprio vero?

Uno dei problemi più grandi che avevo a scuola era la tendenza di alcuni insegnanti a volere a tutti i costi chiudermi il cervello in paratie stagne. Vi sono degli argomenti, delle materie, che: “sono così e basta”; altre che non possono non lasciare spazio a delle considerazioni personali o a delle idee divergenti. Adoro la matematica: a qualsiasi latitudine e persino dappertutto nell’universo 2+2 darà sempre 4. 4×4 equivarrà sempre a 16. Ma se parliamo di storia, di letteratura, io credo vi sia ampio spazio per discutere e persino dibattere e il torto più grande che possa farsi ad una materia letteraria sia preferire il piatto nozionismo allo stimolante dialogo. Per questo ho lasciato l’università.

Nel massimo rispetto per chi non condivide la mia opinione, difendo con convinzione il pensiero che i miei studi religiosi ed anche storici mi hanno portato a sviluppare su un argomento tanto spinoso quanto può essere quello del monoteismo.

Fra i banchi di scuola ho avuto l’impressione che fosse costante l’idea che il monoteismo – partendo dal presupposto che questo sia la migliore espressione del sentimento religioso dell’uomo – sia il prodotto dell’evoluzione del pensiero umano. In parole povere: la forma primitiva di religione sarebbe quella politeista, che si è pian piano evoluta nel corso della storia nel monoteismo che è principalmente rappresentato nelle forme di fede ebraica, cristiana e musulmana – le enuncio in ordine di comparizione.

Posso dissentire? Spero mi sia concesso.

Il principio “evoluzionista” della religione non mi è mai stato dimostrato ma semplicemente imposto, quasi fosse un postulato di geometria. Io, invece, ci tengo a spiegare brevemente il motivo delle mie idee in merito a questo spinoso argomento.

La Bibbia come documento storico

Innanzi tutto mi scuso subito con il lettore, ma considero l’Antico Testamento una fonte storica di tutto rispetto, attendibile non quanto qualsiasi altra fonte storica, ma di più. Anche perché sembra che il fatto che la Bibbia non possa o debba essere presa in seria considerazione quale attendibile documento storico è un altro postulato dell’istruzione “scolastica”, tradizionale, “ortodossa”. Da modesto amante della storia quale sono, mi permetto non solo di dissentire ma di non essere minimamente d’accordo su questa mancanza di rispetto per quella che è – mettendo da parte il significato religioso che io stesso comunque gli riconosco – la più antica ed attendibile fonte storica per gran parte degli eventi che hanno interessato l’antico medio oriente.

Basiamo la cronologia dell’antico Egitto sulle affermazioni di Manetone, sacerdote egizio vissuto nel III secolo a.C. – millenni dopo la costruzione delle prime piramidi e la nascita delle dinastie dei faraoni – e non si tratta neppure di una lettura diretta, visto che le informazioni che egli fornisce le troviamo riportate in opere scritte secoli dopo, essendo andati perduti i suoi scritti. Se contiamo XXXI dinastie egiziane lo dobbiamo a lui.

Quanto siano attendibili storici come il caldeo Beroso o il greco Erodoto non ci è in realtà dato di saperlo. E, in realtà dobbiamo semplicemente fidarci di quanto essi ed altri illustri nomi del passato ci tramandano senza avere, per molte delle cose che dicono, delle concrete dimostrazioni di quanto essi affermano.

Della Tanakh (chiamano così gli ebrei quello che noi definiamo l’Antico Testamento) ci riporta lo storico ebreo Flavio Giuseppe: “Noi non abbiamo un numero infinito di libri fra noi, che sono discordi e si contraddicono a vicenda (come i greci) ma solo ventidue libri, che contengono la memoria dei tempi antichi e che sono giustamente ritenuti divini […] e quanto credito noi riconosciamo a questi libri della nostra nazione è evidente dal nostro comportamento; perché per le molte età che sono trascorse, nessuno ha mai osato aggiungere o togliere loro alcun che o di modificarli; ma è naturale per tutti gli ebrei, immediatamente, all’indomani della loro nascita, ritenere che questi libri contengano delle dottrine divine e persistere nelle cose in essi scritte e, qualora sia necessario, morire per preservarli”. Contro Apione, Libro I, 8.

Oltre a ciò abbiamo la testimonianza di Gesù che conferma l’autorità delle Scritture ebraiche sia con il suo insegnamento che con la sua personale obbedienza ad esse. Capisco il desiderio di essere animati da spirito scientifico e il fatto che la fede sia vista come una debolezza in campo accademico, ma va anche detto che per giusta coerenza non si può chiamare Gesù Signore e sperare in lui per la salvezza della nostra anima e poi trovare delle motivazioni – per quanto dotte e retoricamente valide possano essere – per non ritenere del tutto attendibili le sue affermazioni sulla Tanakh.

Se non fosse stato per la Bibbia forse non esisterebbe nemmeno l’archeologia, che ha mosso i suoi primi passi come scienza che potesse dimostrare l’attendibilità delle narrazioni bibliche sull’antico oriente. La memoria di Sumeri, Assiri, Babilonesi, il diluvio, e tantissimi altri eventi erano infatti narrati solo nella Bibbia ed a buon conto questa veniva accusata dai colti di tempi passati di essere quasi un libro di belle favole.

Oggi invece, dopo oltre due secoli di scavi archeologici e una seria rivalutazione delle fonti già disponibili, leggendo i libri di storia trovo dei perfetti paralleli con le narrazioni bibliche.

“I figli di genitori stranieri potevano essere affidati volontariamente o in modo meno pacifico al Kep (in genere tradotto con “figli reali”), in cui ricevevano una formazione identica (studio delle lingue, religione, uso delle armi e così via) a quella dei figli del sovrano egiziano”. Collana: Biblioteca del Sapere, Sophie Desplancques, L’antico Egitto, pag. 23. Ciò non è forse in perfetta armonia con la narrazione dell’Esodo su Mosè e la sua istruzione presso il palazzo reale egiziano?

Più avanti, a pag. 30 dello stesso testo: “il termine “faraone” viene da un’espressione egiziana che significa “grande casa”, e soltanto a partire dal Nuovo Regno designò la persona del re.” E’ per questo quindi che, con grande accuratezza storica, nelle prime pagine della Bibbia non troviamo citato il nome di alcun “re” egizio, definito semplicemente “faraone”, mentre più in là questi cominceranno ad essere identificati per nome dalla stessa Scrittura, proprio dai sovrani del Nuovo Regno in avanti.

Potrei continuare, ma metterei a dura prova la pazienza del lettore ed è quindi anche nel suo interesse se gli chiedo o (1) di prestare fede a quello che ho detto sull’attendibilità della Bibbia, o di (2) procurarsi altrove tutte le certezze in merito a questa questione di cui ha bisogno. Ho scritto sull’attendibilità storica di Daniele nel commentario che ho dedicato a questo libro biblico. Anche il libro di Esdra-Neemia è stato oggetto di un mio esame storico. Questi studi si trovano sul mio sito e sarebbero un buon punto di partenza – ma ovviamente sono di parte.

Il Tanakh ebraico è il primo vero libro che sostiene il monoteismo come noi lo conosciamo. Esso infatti non è caratterizzato soltanto dal culto di un solo Dio (che nel vicino oriente era cosa più diffusa di quanto non si possa di solito immaginare) ma soprattutto (e questo si che distingue l’ebraismo) dalla promozione di un culto esclusivista, cioè per un Dio che afferma di essere l’unico e solo vero Dio, oltre al quale non vi sono altri dei.

“Tu non adorerai altro dio, perché il SIGNORE, che si chiama il Geloso, è un Dio geloso.” (Esodo 34:14)

Il culto ebraico è inoltre caratterizzato dall’assenza di idoli che rappresentino visibilmente il Dio nazionale e dal rifiuto totale di ogni rappresentazione visibile degli oggetti di culto.

“Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrare davanti a loro e non li servire…” (Esodo 20:4-5)

Ogni persona di media ponderatezza deve riconoscere in questa forma di riverenza per il Signore dell’universo, creatore di ogni cosa, la forma più nobile di spiritualità raggiunta dall’uomo. Ma tornando al nostro discorso iniziale, ci chiediamo: è vero che a questa forma di culto vi è giunto l’uomo nella sua ricerca di Dio, maturando il suo sentimento religioso? Se così fosse davvero accaduto, non ci saremmo aspettati che il monoteismo, come noi lo conosciamo, fosse stato una conquista delle maggiori civiltà dell’antichità?

Gli antichi egiziani

L’antico regno egizio fu l’autore delle più grandi piramidi, monumenti di tremenda, millenaria bellezza. Esse infatti risalgono al terzo millennio a.C. Gli egiziani evidentemente possedevano tecniche di costruzione e conoscenze matematiche sufficienti già allora da poter permettere loro di realizzare opere tanto imponenti.

Il numero di ottobre 2013 della rivista “Storica” (reperibile mensilmente in edicola) presenta un articolo molto bello sulle conoscenze, le strabilianti conoscenze astronomiche, raggiunte nell’antico Egitto già in tempi remotissimi. Questo articolo ci dice che “il calendario civile egizio è stato inventato agli inizi del III millennio a.C.” e che “rimase inalterato per più di 2500 anni”. Ma questo è in sé poca cosa se non si considera che gli egiziani possedevano sufficienti conoscenze astronomiche da poter calcolare la durata dell’anno solare con tale precisione che lo stesso storico Erodoto – citato da Storica all’inizio dell’articolo – non può non sottolineare il fatto: “Secondo me, il loro sistema di computo è più oculato di quello greco, perché […] il loro ciclo delle stagioni viene sempre a cadere nelle stesse date”.

La saggezza di quel popolo era tramandata già dai tempi delle prime piramidi in opere letterarie che esprimevano dignità ed un senso di giustizia degni della civiltà più avanzata. Vi è un’opera divulgativa davvero molto suggestiva su quest’argomento. Christian Jacq ne è l’autore e si intitola “I grandi saggi dell’antico Egitto”, edito in Italia per la collana Oscar Mondadori. Ne consiglio l’acquisto per capire di quanta nobiltà fosse intrisa la cultura egiziana fin da tempi remotissimi.

Nonostante tanta saggezza e tanta conoscenza, il pensiero religioso egiziano era legato a culti strani, di dei con testa a forma di cane o altri animali e comunque associato a rappresentazioni elementari delle varie divinità adorate. E’ come se tanta grandezza subisse un crollo quando la conoscenza, la saggezza, l’evoluzione del pensiero, dovessero essere riferite al culto religioso. E le stesse maestose e grandi piramidi, con le loro stupende decorazioni, forse altro non sono che – mi si permetta di parlare con franchezza – l’espressione della stupida convinzione di sovrani megalomani sulle loro intuizioni riguardanti la vita dopo la morte.

E’ vero vi fu anche la cosiddetta rivoluzione amarniana, l’imposizione del culto del dio sole da parte del faraone del nuovo regno chiamato Akhenaton, ma si trattò di una breve parentesi nella lunga storia dell’Egitto. Non possiamo comunque ritenere allo stesso livello della fede monoteista ebraica l’adorazione del Sole, anche se come dio unico. E’ mia convinzione che questa maldestra forma di culto monoteista sia stata elaborata dal sovrano egiziano all’interno della cultura egiziana grazie all’influenza avuta dal monoteismo, che era già una realtà ai suoi tempi, ma che non trovò un’espressione altrettanto nobile quanto quella ebraica perché fondamentalmente associata ad una forma preesistente di culto pagano ed idolatrico. Quindi si tratta non di un’adozione del monoteismo, ma piuttosto di una riduzione e rimodulazione secondo gli schemi di culto egiziani; a mio avviso di un impoverimento. Una forma di culto che non convinse nessuno e che non sopravvisse molto al suo promotore Akhenaton. Ho scritto un articolo su questo faraone ma che non si sofferma sul senso della sua religione, piuttosto sull’importanza della corrispondenza del suo regno ritrovata nel sito archeologico di Tel Amarna, l’odierno luogo dove un tempo sorgeva la capitale, Akhetaton, che quel faraone fece costruire in onore del suo dio, facendone la capitale del suo regno e la sua dimora; lì dove inoltre costruì la tomba sua e della sua regina.

I greci

Per noi occidentali, in particolare per noi italiani, quello greco viene considerato la massima espressione del pensiero proveniente dal passato. I greci colonizzarono culturalmente il mondo antico, facendo seguito alla inarrestabile conquista militare di Alessandro Magno. Alessandria d’Egitto fu la capitale mondiale della cultura per secoli, con la sua immensa biblioteca sponsorizzata dai sovrani tolemaici – discendenti di Tolomeo, il generale di Alessandro che si impadronì del trono d’Egitto. I nomi di Platone, Socrate, Euripide, Pitagora, sono per noi familiari quanto lo sono le idee che questi hanno espresso e tramandato. Fondamentalmente, da allora in avanti, il mondo occidentale ha pensato in maniera “greca”. Gli stessi romani, che schiacciarono ogni resistenza alla loro avanzata militare, non riuscirono a spodestare il dominio culturale del pensiero greco che invece assimilarono e dal quale furono influenzati. Anche quando i cristiani divennero predominanti in Europa, il pensiero dei greci continuò a sedurre, affascinare ed influenzare i pensatori europei per secoli, fino ai giorni nostri.

Sappiamo che il pensiero greco arrivò a toccare dei picchi che considerano il monoteismo, sembrano sostenerlo e promuoverlo. E in merito a ciò ora voglio dire qualcosa che forse indisporrà i molti sostenitori dell’ellenismo. Sono convinto che la società greca abbia dei meriti indiscutibili nell’avanzamento culturale dell’umanità, ma molte delle cose che essa elaborò non erano tutte farina del suo sacco. E’ vero che la matematica greca è molto avanzata e madre della matematica moderna, ma è mia opinione che questa fosse profondamente indebitata con le conoscenze già raggiunte dagli egiziani in tempi molto più remoti. Il teorema di Pitagora esisteva, in forma molto simile nell’antico Egitto. Il famoso “pi greco” essenziale per il calcolo della circonferenza del cerchio era un numero conosciuto ai matematici egiziani, sebbene non in maniera altrettanto precisa. Insomma, è mia opinione che l’idea che i greci abbiano tirato fuori per primi dal cilindro la loro conoscenza ed il loro pensiero, andrebbe rimossa dall’immaginario meravigliato dello studente medio. Ma una delusione più grande la da Filone alessandrino, un acuto filosofo ebreo vissuto ad Alessandria d’Egitto a cavallo fra il I secolo a.C. ed il I d.C. Egli affermò senza paura che “Mosè ha raggiunto la sommità della filosofia” e sostiene con convinzione che la migliore filosofia greca, con le sue speculazioni su Dio e sul suo “logos”, sia indebitata con la religione ebraica, con i libri di Mosè.

Spesso nello studio degli scritti di Giovanni si ha la sensazione che, quando parla di logos di Dio (Giovanni 1:1-18), egli riprenda dei concetti cari alla filosofia greca. . Logos è un termine greco tecnico (tradotto di solito “Parola” o “Verbo” nelle nostre Bibbie) che racchiude il senso della comunicazione di un Dio trascendente con il mondo materiale che egli ha creato. Ma incidentalmente questo pensiero non è esclusivamente greco. Lo si trova latente nello stesso libro della Genesi, come Filone alessandrino puntualizza con grande maestria. E’ un’idea ripresa nella letteratura sapienziale – vedi la “Sapienza” del libro dei Proverbi. Ed è presente nei Targumin, le versioni aramaiche dell’Antico Testamento, per ricordarci che l’idea del tramite visibile di Dio invisibile è un concetto proprio della Tanakh e del pensiero ebraico. Se i rabbini si sono ad un certo punto allontanati dalle speculazioni in quella direzione è stato perché i cristiani se ne sono appropriati per dimostrare che Gesù era il Messia, la Parola di Dio, il Logos, il Verbo, che loro chiamavano Davar in ebraico e Memra in aramaico, fattosi uomo. Il Nuovo Testamento non attinge quindi alla filosofia greca quando dice di Gesù che egli è il Logos di Dio, bensì alla Tanakh ed alle considerazioni del giudaismo sui dati della Rivelazione. Ciò è perfettamente in accordo con la mentalità religiosa ebraica legata all’udire più che al vedere – e non so quanto con quella di fondo del pensiero greco, così legato alla visibilità delle proprie divinità.

Sebbene così culturalmente avanzato nei campi della matematica, delle scienze, della filosofia, anche il mondo greco diveniva elementare e ridicolo quando si considera le sue forme di religione. Il politeismo greco immagina delle divinità con tratti umani, in controllo di questa o quella forza della natura. Divinità capricciose, viziose, stupide, guidate da istinti bassi ed elementari ed anche piuttosto permalose.

Anche il popolo con la più elevata forma di pensiero, e con la forma più evoluta di linguaggio, non è riuscito, quindi, ad arrivare ad una di religione che stesse alla pari per dignità con gli altri campi della conoscenza umana che era stato capace di sviluppare.

Il monoteismo ebraico-cristiano

Narra il libro biblico degli Atti degli Apostoli, che Paolo, da ebreo ortodosso quale era, inorridì nel suo ingresso ad Atene, contemplando l’idolatria e l’inconcepibile (per un ebreo) sincretismo politeista che pervadeva l’espressione religiosa del mondo greco. Vedi gli Atti degli Apostoli capitolo 17.

Probabilmente fu considerando la sapienza e cultura greca che egli conosceva bene e la sua incapacità ad afferrare l’esistenza e la grandezza del vero Dio, che Paolo dichiarò apertamente la sua sfiducia nelle capacità intellettuali umane per giungere alla conoscenza del Signore dell’universo.

“Infatti Cristo non mi ha mandato a battezzare ma a evangelizzare; non con sapienza di parola, perché la croce di Cristo non sia resa vana. Poiché la predicazione della croce è pazzia per quelli che periscono, ma per noi, che veniamo salvati, è la potenza di Dio; infatti sta scritto: “Io farò perire la sapienza dei saggi e annienterò l’intelligenza degli intelligenti”. Dov’è il sapiente? Dov’è lo scriba? Dov’è il contestatore di questo secolo? Non ha forse Dio reso pazza la sapienza di questo mondo? Poiché il mondo non ha conosciuto Dio mediante la propria sapienza, è piaciuto a Dio, nella sua sapienza, di salvare i credenti con la pazzia della predicazione. I Giudei infatti chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza, ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per gli stranieri pazzia; ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini.” (1 Corinzi 1:17-25)

Il grande paradosso della storia dell’umanità è che la forma più evoluta di religione non è originata dai popoli più grandi, ma fra i discendenti di un pastore nomade vissuto poco meno di quattromila anni fa.

Per secoli Israele è stato l’unico – testardo, inamovibile – testimone della fede monoteista come la professiamo oggi noi cristiani. Il culto esclusivo dei discendenti di Abrahamo riuscì a superare pressoché indenne l’impatto con il ricco Egitto dopo che l’intera nazione ebraica seguì il patriarca Giuseppe in quella terra per sopravvivere alla tragica carestia che si era abbattuta sul mondo di allora. Con la nascita di Mosè, secoli dopo, ancora padrone della sua identità nazionale, Israele uscì dall’Egitto per prendere possesso della terra che Dio aveva promesso al loro patriarca Abrahamo. Durante questo lungo e tormentato viaggio, Mosè ricevette da Dio la Torah che consegnò al popolo come codice delle leggi da osservare. Per secoli Israele combatté una lotta culturale con i popoli che trovò in Palestina e fra i quali si insediò – sempre mantenendo, anche se non senza qualche difficoltà, la propria identità e l’unicità del suo sentimento religioso. La grandezza dei regni di Davide, di Salomone e dei re che li seguiranno facilitarono l’identificazione del popolo di Dio anche come unità nazionale finalmente distinta e definita. Ma il regno di Israele prima, per mano degli assiri e quello di Giuda poi, per mano dei babilonesi, caddero vittima delle deportazioni in massa in altre terre. Neanche la cattività babilonese, però, riuscì a spegnere il fuoco della fede ebraica. Anzi, paradossalmente, come sarebbe accaduto secoli dopo con le persecuzioni della Chiesa, la tragedia nazionale della distruzione del tempio salomonico e della capitale Gerusalemme, stimolerà una definizione e distinzione ancora più netta e marcata della religiosità ebraica. I giudei che tornarono in patria e ricostruirono il secondo tempio di Gerusalemme erano più forti nella loro identità di nazione e nella consapevolezza del loro culto esclusivamente monoteista dei loro antenati deportati in terra straniera. Negli anni a venire l’ellenizzazione e il pensiero sincretista che promuovevano i greci videro un ostacolo nella fede ebraica, al punto che questa venne apertamente e ferocemente perseguitata. Ma non morì. Anzi. La rivolta ebraica guidata da Giuda Maccabeo contro Antioco IV Epifane riuscì a prevalere contro il colosso militare dei Seleucidi ed a mantenere l’indipendenza se non politica, almeno culturale di Israele. I romani che vennero dopo tollerarono la religione ebraica; anche loro comunque senza comprenderla o apprezzarla. Tacito non ha parole buone per la fede giudaica che considera opposta a tutte le pratiche religiose diffuse fra i vari popoli. Egli etichetta la religiosità ebraica come senza gusto e malvagia. Definisce la nazione ebraica incline alla superstizione e con un forte sentimento di distinzione dagli altri popoli e un marcato disprezzo, inculcato fino dalla nascita, per le altre divinità.

Con la distruzione di Gerusalemme e la dispersione di Israele in tutto il mondo durata dall’inizio del secondo secolo della nostra era fino al 1948, ci si sarebbe aspettato che questo popolo avesse perso identità, tradizioni, lingua e cultura. Così non è avvenuto. E ciò, a mio avviso, affinché la testimonianza della fedeltà di Dio fosse evidente per ogni uomo che volesse rendersene conto. Gli ebrei hanno mantenuto la loro identità nazionale. L’ebraico è una lingua ancora viva ed in uso – un fenomeno linguistico senza precedenti. Qualora la spianata del tempio lo consentirà, gli israeliti hanno già pronte le singole pietre necessarie per la costruzione del terzo tempio. Ho appreso di recente che alcuni ebrei si sono tramandati e custodiscono la pronuncia originale ed autentica del nome di Dio rivelato a Mosè, del cosiddetto Tetragramma che oggi nessuno riesce a pronunciare e ciò affinché, al momento giusto, esso possa essere utilizzato nel culto del tempio secondo i riti previsti dalla Torah.

L’Antico Testamento ci spiega l’essenza della nostra fede, come fede Rivelata.

Leggiamo dalla Genesi:

Adamo ed Eva “… udirono la voce di Dio il SIGNORE, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l’uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza di Dio il SIGNORE fra gli alberi del giardino. Dio il SIGNORE chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?” Egli rispose: “Ho udito la tua voce nel giardino e ho avuto paura, perché ero nudo, e mi sono nascosto”. (Genesi 3:8-10)

Vediamo subito che le conclusioni ebraiche sulla “parola” intesa come rivelazione di Dio hanno un chiaro senso biblico e non sono delle astrazioni filosofiche, bensì delle concrete riflessioni basate sui dati della Rivelazione.

Infatti per spiegare il rapporto fra Dio e la sua creazione, le prime pagine della Genesi, continuano a sottolineare l’importanza della parola di Dio.

“Il SIGNORE disse a Caino.” (Genesi 4:6)

e solo la prima di una serie di affermazioni simili.

Ad un certo punto Dio rivolge la sua parola ad un uomo per il quale aveva in serbo un compito davvero speciale.

“Allora Dio disse a Noè” (Genesi 6:13)

Tempo addietro il diluvio biblico era considerato un mito, una narrazione di fantasia. Le nuove scoperte archeologiche hanno dovuto costringere a rivedere questa concezione. E non solo siamo certi della fondatezza storica di questa catastrofe che colpì ad un certo punto la terra, ma anche che vi fu un “eroe” sopravvissuto, nominato in diverse antiche tradizioni e ricordato dalle memoria di diversi popoli antichi.

Il momento più importante del monoteismo ebraico-cristiano è la chiamata di Abramo. “Il SIGNORE disse ad Abramo:

“Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò; io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra”. Abramo partì, come il SIGNORE gli aveva detto…” (Genesi 12:1-4)

L’unica maniera che trovo per spiegare il paradosso storico che rappresenta il fatto che la forma più nobile di monoteismo sia cominciata col popolo ebraico e rimasta praticamente sua esclusiva prerogativa fino alla comparsa di Gesù ed all’universalità dell’evangelo affidato agli apostoli, è accettare il fatto che Dio stesso si sia rivelato alla sua creatura.

Non è stato quindi un processo evolutivo del pensiero umano a condurre all’intuizione di Dio, bensì una Rivelazione diretta e personale di Dio all’uomo a farci comprendere chi Egli sia veramente e come rimarginare la ferita aperta col distacco da Lui causato dall’allontanamento dei nostri progenitori dall’Eden.

E proprio perché rimanesse una traccia visibile per chiunque volesse davvero rendersene conto, Dio ha rivelato se stesso al popolo più piccolo e semplice dell’antichità. Non ha scelto filosofi o scienziati, egiziani, assiri, babilonesi o greci ma un popolo seminomade originario della Mesopotamia. Anzi, un uomo e la sua diretta discendenza che Egli stesso gli ha miracolosamente dato.

Dal politeismo al monoteismo o dal monoteismo al politeismo?

Se è vero, come è universalmente riconosciuto, che il monoteismo ebraico-cristiano e musulmano è quello che maggiore dignità conferisce all’essere Supremo creatore dell’universo ma anche all’uomo, allora davvero ci sorprende che le civiltà più evolute non vi siano giunte e la nazione più insignificante ne sia stata la promotrice.

Ma se il cammino dell’uomo è visto come evolutivo tanto in campo filosofico quanto in quello religioso, come possiamo spiegare ciò?

La mia idea è semplice: il cammino naturale della spiritualità dell’uomo è dal monoteismo verso il politeismo e non il contrario. A questa conclusione sono arrivato anche dall’osservazione di quanto mi è dato di conoscere della storia dell’uomo dall’alba dei tempi ad oggi. Di questo naturale processo porto un esempio a noi molto vicino, sebbene sono conscio che farlo infastidirà alcuni fra i miei lettori. Purtroppo tengo più alla ricerca della Verità che all’opinione degli altri uomini.

Quando il cristianesimo mosse i suoi primi passi, si staccò dai confini nazionali e culturali dell’ebraismo per diffondersi fra le varie nazioni allora esistenti. Mentre l’ebraismo era una tradizione culturale profonda ed antica, radicata in una nazione interamente devota al suo Dio, il cristianesimo invece si sviluppava in piccoli gruppi all’interno di nazioni dove erano vive tradizioni religiose diverse.

Di solito il paganesimo ed il politeismo dell’antichità è visto come una forma di culto primitiva di cui l’umanità s’è definitivamente liberata. E’ vero? Sostengo di no. E osservare quanto è accaduto all’interno del cristianesimo negli scorsi mille e cinquecento anni ci aiuterà a capire anche cosa intendo dire quando affermo che lo studio dell’antichità può spiegarci come si è passati dal monoteismo al politeismo e non il contrario: è questa la tendenza naturale dell’uomo.

Fino al quarto, quinto secolo il cristianesimo mantenne una forma di religiosità sufficientemente aderente agli ideali originari del primo secolo, del periodo apostolico. Nei secoli a venire, però, mentre la Chiesa in occidente cominciava ad assumere i connotati del cattolicesimo come noi oggi lo conosciamo, il cristianesimo visibile cominciò ad abbandonarsi ad una serie di compromessi con le credenze popolari pagane e post-pagane, che diedero libero sfogo a quel sentimento religioso naturale di cui parlavo prima e che tende ad allontanarsi da una religiosità dell’udire – tipica dell’ebraismo e del cristianesimo puro – a favore di una religiosità del vedere. Divenendo il cristianesimo religione libera, quasi di stato, i vecchi templi pagani divennero chiese e con lo sfarzo e l’imponenza delle strutture venne persa la semplicità di quei piccoli gruppi che si riunivano clandestinamente ma che erano caratterizzati da un sincero sentimento di adesione al pensiero apostolico. Dai templi pagani ornati di statue di questa o questa divinità, si passò alla venerazione per questo o quel “santo” patrono, anch’esso rappresentato con questa o quella statua o immagine. Alla fine il cattolicesimo regredì ad una moderna forma di paganesimo. Anche nelle rappresentazioni di Dio, questi viene dipinto più con i connotati di Zeus capo degli dei del pantheon greco-romano e divinità suprema; mentre i santi patroni (eco degli antichi “numi tutelari” dei quali troppo chiaramente presero il posto) equivalgono alle varie divinità pagane preposte a questa o quella specifica cura delle vicende umane: la vista, la salute, la protezione di questa o quella città, ecc…

Capisco che i miei tanti amici cattolici si risentiranno per quello che scrivo, ma chi mi segue sa che mi propongo di scrivere la verità delle cose e farlo, ne sono cosciente, non sempre rende popolari – come, voglio che lo si capisca, non è nemmeno piacevole fare; ma lo ritengo doveroso. Il percorso del cattolicesimo verso questa rimodulazione del pantheon pagano non è una novità, ed è inoltre prova a mio avviso di quell’allontanamento spontaneo dal monoteismo che è latente nella spiritualità dell’uomo lontano dai dati della Rivelazione biblica.

L’autore del libro biblico dell’Ecclesiaste (1:9-10) scrisse con ragione:

“Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c’è nulla di nuovo sotto il sole. C’è forse qualcosa di cui si possa dire: “Guarda, questo è nuovo?” Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto.” (Ecclesiaste 1:9-10)

Non dubito della sincerità di molti quando trovata una statua che ricordi questo o quel “santo” uomo di Dio la adornano, la venerano, la portano in processione, si inginocchiano e pregano davanti ad essa. Però ciò non ha nulla di autenticamente ebraico-cristiano: è solo un rimasuglio della religiosità pagana della quale il cristianesimo avrebbe dovuto prendere il posto, ma che invece ha finito – purtroppo – per assimilare.

Seguendo proprio quello che diceva l’Ecclesiaste, non ci accorgiamo che quanto succede oggi successe anche ai piedi del Sinai?

“Il popolo vide che Mosè tardava a scendere dal monte; allora si radunò intorno ad Aaronne e gli disse: “Facci un dio che vada davanti a noi; poiché quel Mosè, l’uomo che ci ha fatti uscire dal paese d’Egitto, non sappiamo che fine abbia fatto”. E Aaronne rispose loro: “Staccate gli anelli d’oro che sono agli orecchi delle vostre mogli, dei vostri figli e delle vostre figlie, e portatemeli”. E tutto il popolo si staccò dagli orecchi gli anelli d’oro e li portò ad Aaronne. Egli li prese dalle loro mani e, dopo aver cesellato lo stampo, ne fece un vitello di metallo fuso. E quelli dissero: “O Israele, questo è il tuo dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto!” Quando Aaronne vide questo, costruì un altare davanti al vitello ed esclamò: “Domani sarà festa in onore del SIGNORE!” (Esodo32:1-5)

Il vitello rappresentava il tentativo di una rappresentazione visibile di Dio – non di un altro dio, ma proprio di Dio. Esso divenne per il popolo il SIGNORE, divenne per loro una maniera di renderlo visibile e tangibile fra di loro. Non stavano adorando un altro Dio ma lo stesso Dio nel modo sbagliato.

Per questa specifica tendenza, questo bisogno d’avere delle rappresentazioni visibili del proprio oggetto di culto e la naturale propensione al politeismo Dio ha comandato espressamente:

“Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il SIGNORE, il tuo Dio, sono un Dio geloso.” (Esodo 20:4-5)

E’ ovvio, la retorica si prodiga per cercare di riparare nella teoria al danno ormai fatto. Se non il semplice clero cattolico, i teologi sanno però perfettamente che l’adorazione – di qualsiasi tipo – di statue ed immagini e che qualsiasi forma di culto rivolta ad altri che non siano il solo vero Dio è contro la legge di Dio. Ma ci vuole coraggio a confrontarsi col popolo. E’ più facile assecondarlo e godersi la posizione di prestigio acquisita, guardandoli dall’alto verso il basso, compiacendosi della propria cultura e compatendo la loro ignoranza. Dico troppa verità? Chiedo scusa.

La pratica cattolica di riconoscere le virtù di un defunto ed elevarlo ad uno stato di “deificazione” che viene chiamata “santificazione” e che autorizza una forma di culto verso quell’individuo non è anch’essa una pratica nuova – o l’Ecclesiaste avrebbe detto una cosa non vera.

Imhotep visse intorno all’anno 2670 a.C. circa alla corte del faraone egiziano Gioser. Un testo egiziano del XIV secolo a.C. “rivela che ogni scriba, prima di mettersi al lavoro, compie una sorte di libagione in onore di Imhotep … santo patrono dei letterati”. Continua la stessa fonte dalla quale sto citando: “A partire dalla XXVI dinastia (672-525), numerose statuette di bronzo rappresentano il saggio Imhotep seduto, intento a leggere un papiro srotolato sulle ginocchia”. Poco più in là: “Durante la XXVI dinastia, Imhotep fu elevato al rango di un dio – oggi diremmo: di un santo – venerato in tutto l’Egitto.” Christian Jacq, I grandi saggi dell’antico Egitto, pag.10, 11. A pagina 12 dello stesso libro viene aggiunto un altro dettaglio: “A partire dalla XIII dinastia, nel XVIII secolo a.C. la tradizione attribuì poteri di guarigione. Dal momento che offriva la salute a tutti gli uomini, anche alla gente umile, divenne patrono dei medici.”

Anche nell’antica tradizione politeistica mediorientale, gli antichi dei altro non erano che eroi del passato che andavano assumendo sempre di più i contorni di divinità e come tali venivano adorati. Nimrod, Semiramide, Gilgamesh sono fra questi. Io spero che il lettore apprezzi il fatto che evito di appesantire ulteriormente la mia discussione facendo un elenco dettagliato di divinità orientali per dimostrare quanto affermo.

La mia opinione è che, come a mio avviso provano i fatti storici, che la tendenza dell’uomo è verso il politeismo, infelice espressione del ricordo del rapporto con il Dio unico – cessato per il disinteresse dell’uomo per ciò che Egli avesse da dire. A chi ha porto l’orecchio verso di Lui, Dio invece si è rivelato ed ha stabilito un patto e fatto delle promesse.

Relazione e non religione

La grandezza dell’autentico monoteismo ebraico-cristiano non è il fatto semplice, nudo e crudo, di credere nell’esistenza di un solo Dio. Già la Legge mosaica, ed in maniera più evidente i profeti, hanno evidenziato la natura profondamente spirituale dell’ebraismo.

Gesù per noi cristiani è il Maestro che ci spiega il senso delle cose in cui crediamo. I religiosi del suo tempo gli fecero delle domande, come si è soliti farle ad un Rabbi, ad un maestro. Magari loro ci misero un pizzico di malizia in più, perché volevano mettere Gesù in difficoltà; ma non riuscirono nel loro intento, se non a loro stesso danno.

” … e uno di loro, dottore della legge, gli domandò, per metterlo alla prova: “Maestro, qual è, nella legge, il gran comandamento?” Gesù gli disse: “Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e il primo comandamento. Il secondo, simile a questo, è: “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti.” (Matteo 22:35-40)

E’ questo il senso del monoteismo biblico: un corretto rapporto con Dio ed un altrettanto corretto rapporto con il prossimo.

Anche il più ottuso degli uomini deve riconoscere in questa la più alta espressione della religiosità dell’uomo. E l’uomo intelligente non può non chiedersi: come mai ciò proviene dal figlio di un falegname e non dai più grandi filosofi e pensatori? La semplice risposta che non ho vergogna a dare è che: il figlio del falegname ebreo è anche il Figlio di Dio, il Messia, promesso già dalle prime pagine della Genesi non solo agli ebrei, ma all’intera umanità, per ricondurla al Dio dal quale col peccato si è allontanata.

Quando Gesù insegnava su questo argomento non correggeva la prospettiva dell’Antico Testamento, la ribadiva. Già la grandezza del rapporto Dio – uomo compare dalla Genesi, dal modo meraviglioso con cui Dio si relaziona con la sua creatura. Dio cammina nel giardino dell’Eden. Parla a Noè. Parla ad Abrahamo. Compare ad Abrahamo come uomo e conversa con lui sul destino di Sodoma e Gomorra. Lotta con Giacobbe. Appare a Mosè e parla con lui. E la cosa più strabiliante è che questi uomini con i quali Egli interagisce in modo così meraviglioso non sono dipinti nella Parola di Dio come esseri perfetti, ma gente comune che diviene speciale per il semplice fatto che è pronta ad ascoltare la voce di Dio.

Le stesse persone alle quali Gesù affida di diffondere il Vangelo, la buona notizia della comparsa del Figlio di Dio fra gli uomini e della salvezza che ha portato, altro non sono che umili pescatori.

Ecco che è evidente: il monoteismo puro ebraico – cristiano non è una conquista del pensiero dell’uomo, bensì l’evidenza della realtà della Rivelazione di Dio alla sua creatura. Quanto ho esposto fin qui lo rende un fatto evidente, dimostrabile e dimostrato. Essere convinti del contrario, a mio avviso, non è questione di opinione, piuttosto paura di accettare un fatto tanto “incredibile”.