Radici ebraiche ed universalismo della fede cristiana

di Giuseppe Guarino

Lo studio serio del vangelo e della persona stessa di Gesù non può prescindere da una attenta valutazione sia delle radici ebraiche che dell’universalismo del messaggio cristiano.

Oggi sono in moto delle tendenze che sublimano un ritorno alla cultura ebraica ma mi lascia piuttosto perplesso. Il messaggio evangelico infatti non ci vuole tramutare in ebrei, ma fare di noi dei cristiani, dei seguaci di Cristo. In quanto tali, inevitabilmente indebitati alla cultura veterotestamentaria ma anche assolutamente proiettati verso l’universalismo che troviamo nel Nuovo Testamento.

Che il Nuovo Testamento sia intriso di cultura ebraica questo è certo. E’ un dato di fatto. Gesù è nato da genitori ebrei. Il suo nome non avrebbe potuto essere più ebraico: Yeshua, nome ebraico di Gesù, è il diminuitivo di Yehoshua, cioè Giosuè, il successore di Mosè. Suo padre, Giuseppe, sebbene non padre carnale, era della discendenza di Davide, come leggiamo dalla genealogia di Matteo. Sua madre, madre vera, era anch’essa discendente di Davide, come puntualizza Luca. Egli nasce a Betlemme. Egli adempie tutte le profezie che l’Antico Testamento riferisce al Messia. Egli si fa battezzare da Giovanni Battista. Vive secondo la Legge mosaica e cita continuamente le Scritture e le spiega alla maniera dei rabbi ebrei.

Nel Sermone sulla Montagna Gesù si siede ed insegna, gesto tipicamente ebraico. Infatti durante la lettura dei libri di Mosè o dei Profeti, il rabbi stava in piedi, ma quando doveva insegnare, egli si sedeva. Matteo quindi puntualizza nella sua descrizione: “Gesù, vedendo le folle, salì sul monte e si mise a sedere. I suoi discepoli si accostarono a lui, ed egli, aperta la bocca, insegnava loro dicendo” (Matteo 5:1-2, Nuova Riveduta). E’ in questo contesto che Gesù chiarisce in maniera inequivocabile: “Non pensate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti; io sono venuto non per abolire ma per portare a compimento.” (Matteo 5:17 – NR)

Sebbene il Nuovo Testamento sia stato scritto in greco, non si contano i termini ebraici ed aramaici che esso mantiene nella loro lingua originale. Ciò è visibile anche nelle nostre traduzioni, dove la costruzione della frase spesso costringe a ritenere il vocabolo ebraico anche in italiano.

E, verso l’ora nona, Gesù gridò a gran voce: “Elì, Elì, lamà sabactàni?” cioè: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Matteo 27:46)

Giacomo, figlio di Zebedeo e Giovanni, fratello di Giacomo, ai quali pose nome Boanerges, che vuol dire figli del tuono“. (Marco 3:17)

La parola Amen è presente nel Nuovo Testamento greco molte più volte di quante ci si renda conto nelle traduzioni. E’ mantenuta in Matteo 6:13, nella chiusura del cosiddetto “Padre nostro”, mentre non si vede nella traduzione di molti passi di Giovanni. La famosissima espressione “in verità in verità” tipica del quarto vangelo, corrisponde infatti all’originale “Amen, Amen” dove la parola ebraica è semplicemente traslitterata in alfabeto greco.

Un’altra meravigliosa espressione che sopravvive nel Nuovo Testamento e nel linguaggio quotidiano dei credenti è “Alleluia”. “Dopo queste cose, udii nel cielo una gran voce come di una folla immensa, che diceva: “Alleluia! La salvezza, la gloria e la potenza appartengono al nostro Dio.” (Apocalisse 19:1 – NR)

Accanto a questa meravigliosa continuità con la fede del popolo giudaico, va, però, sottolineato anche l’universalismo del messaggio evangelico, che, in questo senso, si distacca, rompe quasi, con l’esclusivismo ebraico.

Scrive Giovanni nel suo vangelo: “È venuto in casa sua e i suoi non l’hanno ricevuto; ma a tutti quelli che l’hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventar figli di Dio: a quelli, cioè, che credono nel suo nome” (Giovanni 1:11-12)

Il comandamento di Gesù ai suoi discepoli è chiaro: “Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popolibattezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (Matteo 28:19 – NR)

Ecco quindi spiegato perché i libri della nuova fede non vengono scritti in ebraico, né in aramaico, bensì in greco, la lingua più parlata nel mondo che vide muovere i primi passi del cristianesimo. Era anche la lingua della traduzione dell’Antico Testamento che godeva di prestigio fra gli stessi ebrei dispersi nelle nazioni, lontani da Israele, che non avevano più sufficiente dimestichezza con la lingua ebraica. Grazie anche a quest’uso consolidato all’interno dello stesso ambiente ebraico, la lingua greca si prestava perfettamente da una parte a raccogliere l’eredità dell’Antico Testamento e dall’altra a veicolare il messaggio universale dell’Evangelo.

Nelle mani dell’apostolo Paolo il greco divenne un potente mezzo per esprimere la dottrina cristiana con grande efficacia. La cristologia neotestamentaria – bisogna ammetterlo – difficilmente avrebbe potuto esprimere concetti come quelli che vi rinveniamo se fosse stato scritto in lingua ebraica. Il greco permise all’apostolo Paolo di descrivere la persona di Gesù ai Gentili in maniera straordinaria. Scrisse ai Colossesi: “… in lui dimora tutta la Pienezza della Deità corporalmente” (2:9). Definì inoltre Gesù: “immagine del Dio invisibile” (Col. 1:15). Con terminologia ancora più sofisticata lo stesso concetto viene elaborato in un linguaggio molto sofisticato in Ebrei 1, dove è detto che Gesù “è splendore della sua gloria (di Dio) e impronta della sua essenza.

Famosissimo è il riferimento di Giovanni al logos nel prologo del suo Vangelo. Mai concetto più ebraico avrebbe potuto esprimersi con una terminologia più greca. Ai primi intellettuali convertiti al cristianesimo, venne istintivo richiamare il concetto comune all’ebraismo ed alla cultura ebraica ed ellenica di logos per annunciare il Cristo, mediatore cosmico fra Dio e l’uomo incarnatosi in Gesù di Nazaret.

Nel vangelo più ebraico dei quattro, Matteo, troviamo l’affermazione più universale, sulla nuova comunità raccolta attorno a Gesù Cristo, il Figlio di Dio. “Ed egli disse loro: “E voi, chi dite che io sia?” Simon Pietro rispose: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Gesù, replicando, disse: “Tu sei beato, Simone, figlio di Giona, perché non la carne e il sangue ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli. E anch’io ti dico: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa, e le porte dell’Ades non la potranno vincere.” (Matteo 16:15-18)

L’ultima più emblematica considerazione riguarda il nome ineffabile di Dio, il cosiddetto Tetragramma,יהוה, che nel Nuovo Testamento greco diviene Kyrios, Signore, termine comprensibile, diretto, che nulla di ebraico conserva ma che rappresenta e rivela l’universalità della sovranità del Dio della Bibbia, ora non più esclusivo patrimonio della nazione ebraica, ma alla portata di ogni uomo che lo invoca. Scrive Paolo proprio in virtù di questa nuova accessibilità di Dio: “… perché, se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato; infatti con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa confessione per essere salvati. Difatti la Scrittura dice: “Chiunque crede in lui, non sarà deluso”. Poiché non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato.” (Romani 10:9-13)

E’ questa la sostanza e la potenza del messaggio evangelico che esce prepotentemente al di fuori dei confini dell’ebraismo, geograficamente ed intellettualmente. “Non c’è più distinzione fra Giudeo e Greco, essendo egli stesso Signore di tutti” è un’affermazione che esprime l’universalismo della nuova fede, che estende ad ogni uomo l’invito di tornare a Dio. Non vi sono più degli eletti per diritto di nascita, ma eletti per scelta. Paolo continua a scrivere e conclude il suo ragionamento citando un brano dell’Antico Testamento: “chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato” come per invitare comunque a non dimenticare le radici ebraiche della nostra fede e per motivare ogni cosa con l’autorità delle Scritture ebraiche.

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