Pantokrator

di Giuseppe Guarino

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Il Nuovo Testamento è stato scritto in greco. Grazie ad Alessandro Magno ed alla sua politica di colonizzazione culturale, questa lingua si era diffusa praticamente in tutto il mondo. Quando il cristianesimo muoveva i primi passi, fu naturale che la adottasse per universalizzare il messaggio della salvezza.

Il greco era una lingua sofisticata, complessa. Ciò la rendeva un fantastico strumento nelle mani di poeti e filosofi. La sua capacità di agevolare e veicolare il pensiero astratto è unica, segna una tappa del linguaggio umano di straordinaria levatura.

Il Nuovo Testamento, però, non venne scritto in greco classico. Spesso viene detto che si trattava della forma di linguaggio comune, certamente più semplice del sofisticato dialetto Attico, definita Koinè. Ciò è vero, ma il fenomeno linguistico – così come quello letterario – degli scritti apostolici, è un po’ un caso a se. Nasce con la versione in greco dell’Antico Testamento, la cosiddetta Septuaginta, o LXX, Settanta, nell’ambiente culturale di Alessandria d’Egitto del III secolo a.C., dove vivevano molti giudei, sponsorizzata dal faraone egiziano per arricchire la prestigiosa biblioteca di Alessandria. Così narra lo storico Giuseppe Flavio vissuto nel I secolo.

Il greco della Settanta viene ripreso nel Nuovo Testamento ed arricchito persino di nuovi vocaboli. Il risultato è il greco biblico, una lingua semplice, che sa anche di semitico, che funge da perfetto ponte fra la lingua e la cultura dell’ebraico biblico per universalizzare ed estendere alla portata di ogni uomo la salvezza del Dio di Israele.

Alla luce di questa premessa, consideriamo l’espressione che rinveniamo in Apocalisse 1:8.

Io sono l’alfa e l’omega”, dice il Signore Dio, “colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente”.

 

La parola “Onnipotente” è in greco “pantokrator” (παντοκράτωρ). Il contesto in cui essa viene utilizzata è solenne, in armonia con la forza del contesto della frase nella quale è inserita. Al di fuori dell’Apocalisse (1:8; 4:8; 11:17; 15,:3; 16:7, 14; 19:6, 15; 21:22), il Nuovo Testamento la riporta soltanto in 2 Corinzi 16:18.

Giovanni prese in prestito la parola “pantocrator” dai brani dell’Antico Testamento dove i LXX avevano reso così l’espressione ebraica che le nostre Bibbie traducono in italiano (SIGNORE) “degli Eserciti” ovvero (Eterno) “degli Eserciti”, che corrisponde all’originale (Adonai) Sebaoth (צבאות [יהוה]).

In  Nahum 2:13, ad esempio, la LXX riportava Kyrios Pantokrator (κύριος παντοκράτωρ), letteralmente: “Signore Onnipotente”.

Perché questa scelta da parte dei traduttori in greco dell’Antico Testamento?

Pantokrator “(che pure è stato usato per tradurre Sebaoth anche nei libri più antichi) interpreta l’espressione nel significato più universale: non nel significato originario di <<Dio degli eserciti (di Israele)>>, che dà al suo popolo la vittoria sui nemici, bensì nel senso di <<Dio dominatore di tutte le potenze terrestri e celesti.>> […] l’evoluzione di significato dell’espressione ebraica Sebaoth ha la sua continuazione nella parola greca, che fu scelta per tradurlo (o addirittura coniata a questo scopo) …”, Orsolina Montevecchi, Bibbia e papiri, Luce dai papiri sulla Bibbia greca, pag. 39.

Le affermazioni di questa studiosa gettano luce sul fenomeno della cultura religiosa ebraica che si spinge al di fuori dei suoi confini, per divenire di chiunque voglia avvicinarsi alla fede del Dio unico rivelato pienamente in Gesù.

L’affermazione fatta da Giovanni che si riferisce a Dio come Colui “che è, che era e che viene”, esprimeva una valenza – evoluzione universalistica di un termine ebraico, simile a quella che ha portato alla nascita ed uso di “pantokrator”.

Giovanni conosceva il Tetragramma, YHVH (in ebraico יהוה), il Nome di Dio rivelato a Mosè nell’Antico Testamento, ma anziché proporlo nell’originale ebraico, che non avrebbe avuto alcun senso intellegibile per i destinatari di lingua greca del suo scritto, così come fecero secoli prima i Settanta, preferì trasmetterne il significato.

Le quattro consonanti ebraiche del Tetragramma vengono vocalizzate nel testo Masoretico, ed aggiungendo semplicemente quelle vocali alla sequenza delle consonanti, otteniamo la famosa translitterazione YeHoVaH.

In proposito Asher Intrater, ebreo messianico, si suggerisce un dettaglio che può spiegare il senso profondo delle parole dell’apostolo Giovanni:

“Aggiungendo le vocali “e”, “o”, “a” alle consonanti YHVH, si ottiene il nome YeHoVaH. In questa struttura verbale, la “e” (sh’va) indica il tempo versale futuro, la “o” (holom) il presente e la “a” (patach) il passato, dando al nome YeHoVaH il significato di “Egli sarà, Egli è, Egli era”: in altre parole, l’Eterno”, Asher Intrater, Chi ha pranzato con Abrahamo?, edizioni Perciballi, novembre 2012, p. 162.

Potremmo quindi ipotizzare che Giovanni stesse letteralmente traducendo ed universalizzando l’espressione ebraica צבאות יהוה (Adonai Sebaoth). Egli rende il Tetragramma con “Colui che era, che è, e che viene” e il termine Sebaoth con Pantokrator, Onnipotente.

Le implicazioni esegetiche di una tale interpretazione linguistica non sono argomento di questo breve articolo, ma lasciano davvero tanto spazio a riflessioni molto profonde.    Siamo inoltre davanti ad una ulteriore dimostrazione del sostrato semitico del Nuovo Testamento che ne conferma l’autentica origine apostolica.

Per chiudere questo articolo voglio tradurre un brano tratto dai “I Principi” di Origene (185-253 d.C.) dove viene appunto discusso Apocalisse 1:8. Quando leggo scritti di questo livello, di tale profondità, mi rendo conto come per leggere la migliore letteratura cristiana forse dobbiamo guardare ai primi secoli della storia della Chiesa. Senza nessuna offesa agli autori contemporanei, ma non so se trovo negli scritti di oggi tanta bellezza.

Scrive così Origene:

“Ascoltate in che modo Giovanni parla nell’Apocalisse: “Così dice il Signore Dio, che è, che era e che verrà, l’Onnipotente”. E chi è “colui che verrà” se non Cristo? E nessuno si scandalizzi del fatto che Dio è il Padre, e che anche il Salvatore è Dio. Così come il Padre è chiamato onnipotente, nessuno dovrà scandalizzarsi se il Figlio di Dio è anch’egli chiamato onnipotente”. I Principi, Libro 1, 10.