Il Vangelo ebraico di Matteo di Giuseppe Guarino
Il merito di avere pubblicato un’edizione del Vangelo di Matteo in lingua ebraica spetta a George Howard, professore di religione alla University of Georgia. Si tratta di un’opera davvero straordinaria che in un certo senso potrebbe confermare le varie voci che da più parti ed in diversi momenti della cristianità antica sostenevano l’esistenza di una versione ebraica di Matteo o addirittura che Matteo fosse stato originariamente scritto in ebraico e solo in seguito tradotto in greco – lo ribadisco, però, unica versione antica nella quale questo libro comunque ci è giunto. Questo Matteo ebraico si trova all’interno di un trattato scritto da un ebreo, tale Shem-Tob, per confutare le dottrine cristiane e ciò soltanto – e di nuovo purtroppo – nel relativamente recente XIV secolo.
Sebbene custodito all’interno di un trattato fondamentalmente recente, se visto lontano quindici secoli dall’originale, il testo ebraico di Matteo che viene qui preservato, potrebbe avere un’importanza molto più significativa di quanto possa apparentemente sembrare.
Howard presenta nel suo libro Hebrew Gospel of Matthew, Mercer University Press, 1995 – che cito di seguito – il testo ebraico ottenuto da un attento esame dei manoscritti che lo contengono, la traduzione in inglese, ovviamente, e le conclusioni dello studioso su questa affascinante testimonianza ad un Matteo semitico.
Nei punti meno tecnici del suo studio, egli riassume così le sue conclusioni: “Supponendo che il testo di base del Matteo ebraico di Shem-Tob è un testo ebraico primitivo, noi riscontriamo proprio quanto ci aspetteremmo, cioè uno scritto composto principalmente in ebraico biblico con elementi dellaMishna[1], ma che mostra modifiche operate da scribi con l’intento di rendere il testo più in armonia con forme linguistiche più tarde. Oltre a ciò, il testo riflette un’opera notevole di revisione avente lo scopo di renderlo più vicino allo standard greco e latino del testo del vangelo durante il Medio-Evo […] Ad ogni modo, rimane intatto del testo originale quanto basta per osservare la sua antichità.” (pag. 183)
Perché è importante questo “potenziale originale” ebraico di un vangelo per la nostra discussione? Perché l’uso linguistico di un testo ebraico conferma ancora di più quanto questo vangelo fosse in armonia con il periodo cui la concezione tradizionale della Chiesa ascrive la composizione di Matteo.
Nel testo ebraico di Matteo, Howard può osservare un comportamento meno evidente di quello che ricorre nella versione greca dello stesso vangelo: “L’uso conservatore del Nome Divino, che occorre solo in citazioni della Bibbia ebraica, nelle introduzioni di citazioni, o in frasi bibliche quali “Angelo del Signore” o “Casa del Signore” corrisponde molto da vicino all’uso del Tetragramma nei documenti ebraici ritrovati fra i rotoli del Mar Morto”. (pag. 203)
Il nome rivelato da Dio a Mosè sul Sinai (il cosiddetto Tetragramma) gode da sempre di una considerazione particolare per il popolo ebraico (Esodo 3:14-16). Tanto che, ad un certo punto della storia del popolo di Dio, si decide di evitarne l’uso e la pronuncia. Questo costume, che è un fenomeno naturalmente ravvisabile nei testi in lingua ebraica, non è invece particolarmente evidente nell’originale del Nuovo Testamento proprio perché scritto in greco. Ma è ben visibile tanto nel Matteo ebraico, quanto negli scritti della comunità di Qumran.
Sempre fermo il fatto che le evidenze di Qumran non possono essere più recenti del periodo della distruzione romana, l’armonia del Matteo ebraico con gli scritti della comunità ebraica del primo secolo può soltanto andare ad aggiungersi alle altre motivazioni fin qui addotte per poter più validamente sostenere l’ebraicità e, quindi, antichità e, conseguentemente, autenticità delle opere evangeliche.
Vale la pena anche riprendere le conclusioni di Howard fra il testo ebraico di Matteo e quello greco che ci è familiare.
“Vi sono fondamentalmente tre possibilità per spiegare la relazione esistente (fra il testo ebraico e quello greco di Matteo, ndt): “1. Il testo ebraico è una traduzione di quello greco (o di una sua versione, come quella latina). 2. Il greco è una traduzione dell’ebraico. 3. Sia l’ebraico sia il greco rappresentano una composizione originale nella rispettiva lingua con uno dei due che serve come modello per l’altro. La discussione porterà alla conclusione che l’opzione numero 3 è quella da preferirsi senza, comunque, determinare quale – il greco o l’ebraico – sia servito da modello per l’altro”. (pag. 181)
L’ipotesi che ventila più in là lo studioso è davvero plausibile. Il testo ebraico di Matteo “è stato preservato da ebrei e forse ebrei cristiani, ma non da cristiani Gentili” i quali ovviamente hanno tramandato il testo greco di questo vangelo che ci è familiare, “esso è stato citato sporadicamente da autori ebrei fino a quando non è riemerso nella sua totalità nel Even Bohan”, (pag. 225) il trattato polemico composto da Shem-Tob.
Scrive così Eusebio di Cesarea, nel IV secolo, nella sua prestigiosa Storia Ecclesiastica: “Matteo avendo inoltre per primo proclamato il vangelo in ebraico, quando stava per andare ad altre nazioni, lo affidò alla forma scritta nella sua lingua d’origine, in maniera da poter supplire alla mancanza della sua presenza fra loro, con il suo scritto”. (Libro I, capitolo 24)
La testimonianza dello storico cristiano fa eco a quella di altri antichi autori cristiani. Ireneo che visse nel II secolo, parla di Matteo che ha scritto il suo vangelo per gli ebrei. Ne parla Origene, nel III secolo. Significativa anche la testimonianza di Girolamo, traduttore della Vulgata, in proposito.
Insomma l’idea che fra gli ebrei sia stato preservato un ebraico di Matteo, qualunque sia stata la sua relazione con il Matteo greco, è plausibile e ciò depone a favore dell’attendibilità delle narrazioni evangeliche.
Le molte altre implicazioni di una tale eventualità non sono oggetto del tema che sto affrontando in questo scritto, quindi rimando il lettore interessato a testi specifici, sebbene debba subito anticipargli che non credo esista nulla in italiano in ambito divulgativo.