La lingua del Nuovo Testamento

di Giuseppe Guarino

Secondo i criteri di datazione che ho già proposto altrove, sono convinto che i libri che fanno parte del Nuovo Testamento furono scritti tutti entro il I secolo d.C. in quella forma di greco koinè che ho già definito come greco biblico.
E’ vero che in quel periodo l’impero romano dominava da tempo tutte le terre che si affacciavano sul Mediterraneo, ma la sua potenza militare non era riuscita a spodestare la cultura e la lingua greche. Come la caduta dell’impero britannico non ha significato la fine della diffusione della lingua e cultura inglese – che continua inarrestabile – anche nel mondo antico, con la morte di Alessandro Magno, il grande promotore dell’ellenismo nel mondo, lo smembramento del suo vastissimo impero prima e l’inarrestabile e sistematica conquista romana poi, non riuscirono a porre fine al dominio mondiale della cultura greca.
Già nel III secolo a.C., in Egitto, sotto la dinastia (greca) dei Tolomei, si era cominciato a tradurre la Bibbia ebraica in greco. Questa versione fu detta – e tale nome rimane fino ad oggi – dei Settanta (LXX), ovvero Septuaginta, a motivo del numero (fra storia e leggenda) dei traduttori originari del Pentateuco.
In quale greco venne approntata questa antica versione?
La lingua greca forniva almeno due possibilità di scelta. La prima era quella del greco classico, l’elegante ma rigido linguaggio letterario; la seconda era quella del greco Koiné, il greco parlato, più pratico e meno retorico, meno rigido, più fluido ed aperto all’innovazione ed al cambiamento – come sono di solito le forme colloquiali di tutte le lingue.
La scelta della versione dei LXX ricadde sul Koiné.
Ancora oggi la Settanta è oggetto di particolare studio ed offre spunti di riflessione sulla terminologia greca proposta per interpretare le parole ed i fatti della fede ebraica.
Il mandato di Gesù agli apostoli era diffondere la buona notizia della salvezza a tutto il mondo.

“Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.” (Matteo 28:19)

” … mi sarete testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all’estremità della terra.” (Atti 1:8)

La cosa più ovvia era che gli apostoli ed i loro discepoli ripiegassero sull’utilizzo del greco per le Scritture sacre della nuova fede, in modo da poterne assicurare la diffusione e la lettura al di fuori della cerchia ristretta del mondo ebraico.
Anche per la composizione del Nuovo Testamento, la scelta non ricadde su una lingua colta e sofisticata, ma su un linguaggio che rendeva accessibile e chiaro il messaggio evangelico. Continuando il percorso già felicemente inaugurato dalla LXX, le Scritture cristiane furono scritte in Koiné.
Ovviamente il Nuovo Testamento, da un punto di vista squisitamente letterario, non è opera di un solo scrittore. Purtroppo nelle sue versioni in italiano, l’intervento determinante del traduttore – sostanzialmente, sebbene non in maniera premeditata – uniforma lo stile dei singoli libri che lo compongono. Leggendolo invece nell’originale greco, questa omogeneità non si riscontra affatto. Mettendo Marco a confronto con Giovanni, è evidente la netta differenza di stile e di linguaggio. Paolo, poi, è ancora diverso. Per non parlare di Luca, la cui introduzione al vangelo è scritta in un greco piuttosto sofisticato – anche questo favorì la popolarità della sua opera presso alcune fazioni gnostiche avverse all’ebraismo.
Tutti gli autori del Nuovo Testamento – mi sento di dire, quindi, anche l’Autore dietro gli autori che è lo Spirito Santo – hanno rinunciato agli schemi fissi, alla retorica artificiosa della lingua letteraria, preferendo la vitalità ed immediatezza della lingua parlata.
Le ripercussioni di tale scelta sono state stupefacenti e le sperimentiamo quotidianamente nella lettura della Parola di Dio, nel modo in cui la comprendiamo e viviamo.
Il greco del Nuovo Testamento è quindi semplice e chiaro, ma non elementare o banale: non è sofisticato, perché vuole innanzi tutto comunicare; ma non rinuncia ad esprimere una propria identità e quelle caratteristiche che ne fanno un fenomeno letterario di tutto rispetto.
Vale la pena evidenziare il felice connubio fra cultura ebraica e lingua greca. Per quanto riguarda invece le influenze della cultura greca su quella ebraica, le idee sono state diverse in vari ambienti ed in vari periodi storici. Alcuni hanno attribuito un ruolo preponderante al senso del contributo greco – a mio avviso immotivatamente: l’ebraismo non disconosceva di fatto i meriti del mondo greco e accettava il valore della sua lingua, ma non era certamente pronto a soccombere ai suoi schemi culturali. La tradizione ebraica era troppo forte e troppo sicura della propria identità ed eredità perché potesse facilmente cedere ad influenze esterne.
Ecco quindi che il linguaggio della LXX e quello del Nuovo Testamento, suo logico prosieguo, è allo stesso tempo semplice, ma innovativo: chiaro, ma vivo e stimolante.

La parola greca “agape” (in alfabeto greco: αγαπη), famosa anche al di fuori della cerchia di chi studia il greco biblico, è propria della traduzione dei LXX e del Nuovo Testamento: non la si trova infatti nel greco classico.

La famosa parola greca “zoe” (ζωη) che significa “vita”, è stata adottata dalla Bibbia, in particolare dal Nuovo Testamento e dagli scritti di Giovanni, per ricevere connotati più definiti e specifici di quanto il termine greco in sé non intendesse originariamente comunicare. E’ incredibile come un vocabolo colloquiale sia stato arricchito di significato al punto da reinventarlo quasi del tutto, mantenendo soltanto la riconoscibilità della sua forma, per trasmettere dettagli nuovi e meravigliosi. L’uso giovanneo della parola “zoe”, “vita” in particolare, le dona connotati di una profondità spirituale davvero notevole.

Un vocabolo degno di nota particolare è quello che troviamo nell’Apocalisse: “pantokrator” (παντοκράτωρ), cioè “onnipotente”. Il contesto in cui esso viene utilizzato è solenne, in armonia con la forza di un’espressione di questo genere. Al di fuori dell’Apocalisse, il Nuovo Testamento lo riporta soltanto in 2 Corinzi 16:18.

“Io sono l’alfa e l’omega”, dice il Signore Dio, “colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente”. (Apocalisse 1:8)

Giovanni prese in prestito la parola “pantokrator” dai brani dell’Antico Testamento dove i LXX avevano reso così l’espressione ebraica che le nostre Bibbie traducono in italiano “SIGNORE degli Eserciti” ovvero “Eterno degli Eserciti”.
In Nahum 2:13, ad esempio, la LXX riportava Kyrios Pantokrator (κύριος παντοκράτωρ), letteralmente: “Signore Onnipotente”.
Perché questa scelta da parte dei traduttori in greco dell’Antico Testamento?
Pantokrator “(che pure è stato usato per tradurre Sebaoth anche nei libri più antichi) interpreta l’espressione nel significato più universale: non nel significato originario di <<Dio degli eserciti (di Israele)>>, che dà al suo popolo la vittoria sui nemici, bensì nel senso di <<Dio dominatore di tutte le potenze terrestri e celesti.>> […] l’evoluzione di significato dell’espressione ebraica Sebaoth ha la sua continuazione nella parola greca, che fu scelta per tradurlo (o addirittura coniata a questo scopo) …” – Orsolina Montevecchi, Bibbia e papiri, Luce dai papiri sulla Bibbia greca, pag. 39. Le affermazioni di questa studiosa gettano luce sul fenomeno della cultura religiosa ebraica che si spinge al di fuori dei suoi confini, per divenire la cultura propria di chiunque voglia avvicinarsi alla fede del Dio unico ebraico.
In questo contesto non sarà inopportuno notare un ulteriore dettaglio nelle parole dell’Apocalisse: quando Giovanni si riferì a Dio come Colui “che è, che era e che viene”, esprimeva una valenza – evoluzione universalistica di un termine ebraico, simile a quella che ha portato alla nascita ed uso di “pantokrator”. Giovanni conosceva il Tetragramma, YHVH (in ebraico ), il Nome di Dio rivelato a Mosè nell’Antico Testamento, ma anziché proporlo nell’originale, preferì trasmetterne il significato al lettore di lingua greca.
Le quattro consonanti ebraiche vengono così vocalizzate nel testo Masoretico, : aggiungendo semplicemente le vocali alla sequenza delle consonanti, avremo nel nostro alfabeto YeHoVaH.
In proposito Asher Intrater, ebreo messianico, dice qualcosa che può spiegare il perché delle parole dell’apostolo Giovanni: “Aggiungendo le vocali “e”, “o”, “a” alle consonanti YHVH, si ottiene il nome YeHoVaH. In questa struttura verbale, la “e” (sh’va) indica il tempo versale futuro, la “o” (holom) il presente e la “a” (patach) il passato, dando al nome YeHoVaH il significato di “Egli sarà, Egli è, Egli era”: in altre parole, l’Eterno”. Asher Intrater, “Chi ha pranzato con Abrahamo?”, edizioni Perciballi, novembre 2012, p. 162.
Potremmo quindi ipotizzare che Giovanni stesse letteralmente traducendo ed universalizzando l’espressione ebraica יהוה צבאות (Adonai Sebaoth) tradotta di solito nell’Antico Testamento “Signore degli Eserciti”.

Molto importante per la corretta lettura del senso dell’incarnazione del Figlio di Dio, è la comprensione del termine greco Logos (Λόγος) – utilizzato nell’originale greco del Vangelo di Giovanni. Di solito questo viene tradotto “Parola” dai protestanti mentre i cattolici preferiscono “Verbo”, seguendo la lezione dell’antica versione latina della Bibbia.

“Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio.” (Giovanni 1:1)

Si tratta di un vocabolo importante perché nel mondo della filosofia greca il concetto di Logos era già esistente quando Giovanni scriveva il suo Vangelo. Ma ciò non deve indurre a cadere nell’errore di immaginare che l’apostolo si ispirasse a concetti estranei al mondo ebraico: anche qui, una terminologia presa in prestito dalla lingua greca, esprime un concetto profondamente semitico. Gli antichi scrittori cristiani di lingua greca – come Giustino (nel II sec. d.C.) – hanno colto l’occasione per esprimere il senso dell’incarnazione ai non ebrei, proprio sfruttando questa somiglianza fra il Logos greco e quello neotestamentario.

Nulla accade per caso, ne sono profondamente convinto. La lingua ebraica è nata e cresciuta con la fede nel Dio unico ed è per questo che esprime meglio di ogni altra il linguaggio delle cose di Dio. Quella greca aveva raggiunto una grande diffusione ed una maturità perfetta proprio nel momento in cui venne a contatto con l’Antico Testamento: nelle mani giuste, permise di esprimere al meglio qualsiasi tipo di concetto, dal più concreto al più astratto. Divenne la lingua della Settanta prima e del Nuovo Testamento poi, il perfetto veicolo attraverso il quale la fede in Cristo poté essere diffusa in tutto il mondo.
 




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