La potenzialità del greco originale della frase, letta anche alla luce del forte pragmatismo ebraico.
di Giuseppe Guarino
Le sfaccettature intraducibili di una lingua sono fra le motivazioni principali che ti spingono a studiarla e che rendono, in un certo senso, divertente farlo.
In inglese amo l’uso dello slang. In una conversazione informale piuttosto che dire “it is all right for me”, preferisco senz’altro “I am cool with that”.
Il greco biblico è un fenomeno diverso. Ovviamente. Per certi aspetti più complesso, dal punto di vista squisitamente linguistico. Ma ciò lo rende solo più affascinante. Più dell’ebraico biblico che è standardizzato dai millenni che l’hanno fissato nella forma che troviamo nel Tanakh – così chiamano gli ebrei l’Antico Testamento.
Il greco biblico è spesso chiamato koinè. Si tratta, però, della versione di quest’ultimo in uso nel 250 a.C. ad Alessandria d’Egitto, quando vennero per la prima volta tradotti i cinque libri di Mosè.
Questo greco venne ripreso, ampliato e adattato al testo biblico dai traduttori degli altri libri dell’Antico Testamento e divenne persino la lingua di alcuni testi ebraici – come ad esempio il libro dei Maccabei.
In questo contesto sarebbe fuori luogo descrivere “cosa” è accaduto in pratica, ricorrendo a vari esempi. Ci basterà stabilire il perché e tutto sarà ovvio.
Gli autori del Nuovo Testamento sono tutti di prima lingua ebraica. Scrivono si storie ed eventi occorsi in un contesto ebraico. Riportano discorsi e dialoghi che hanno avuto luogo in lingua ebraica (o aramaica).
Il loro greco non può essere puro, non può non risentirne.
È un male?
No!
È un bene!
La ricchezza del greco biblico, nel quale è stato scritto il Nuovo Testamento, raccoglie la profonda solennità dell’ebraico per renderla universale: apre letteralmente la porta della salvezza ai non Giudei!
Giovanni 3:16 è la più universale delle affermazioni che troviamo nella Bibbia.
La riporto: “Perché Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo Unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna”.
Non ho imparato il greco se non proprio per il piacere di leggere il Nuovo Testamento in originale. Utilizzando lo stesso metodo che avevo fatto mio anni prima con l’inglese, ho lavorato ai vocaboli e alle frasi fino a quando sono stato capace di leggere e capire senza dover necessariamente ricorrere ad alcuna traduzione dei termini che incontravo. Insomma, leggevo il greco in greco – come dico io spesso.
Leggendo Giovanni 3:16 mi sono accorto di comprenderlo in maniera leggermente diversa da come viene comunemente tradotto in italiano. Non proprio in maniera “diversa” però; forse potrei dire: più ricca e completa. Ciò spesso accade quando una lingua offre delle sfumature che non sono traducibili, dei significati più ampi di un vocabolo, che l’autore usa per poter dire più cose con una sola frase; dicendone una, in questo modo, non ne esclude l’altra.
Visto che ritengo che la conoscenza del greco sia un dono di Dio – perché non so nemmeno io come sono riuscito in questa piccola impresa, se non per la sua grazia. E visto che per me scrivere è la maniera più congeniale per esprimermi, ho deciso di mettere per iscritto e comunicare la meravigliosa profondità di significato di questo brano della Scrittura.
Non vi spaventate adesso se riporto il testo greco di Giovanni 3:16. Lo translittererò nel nostro alfabeto per poter permettere al lettore di leggerlo agevolmente – se non conosce il greco o l’ha studiato a scuola. Tradurrò inoltre parola per parola.
οὕτω
γὰρ
ἡγάπησεν
ὁ Θεὸς
τὸν κόσμον
uto
gar
egapesen
o teos
ton cosmon
così
perché
ha amato
Dio
il mondo
ὥστε
τὸν υἱὸν
αὐτοῦ
τὸν μονογενῆ
ἔδωκεν
oste
ton uion
autu
ton monoghene
Edochen
che
il Figlio
suo
l’Unigenito
ha dato
ἵνα
πᾶς ὁ
πιστεύων
εἰς αὐτὸν
μὴ ἀπόληται
ina
pas o
pisteuon
eis auton
me apoletai
affinché
chiunque
crede
in lui
non perisca
ἀλλ᾿
ἔχῃ
ζωὴν
αἰώνιον
all’
eche
zoen
aionion
ma
abbia
vita
eterna
Secondo me se non si apprezza la Bibbia è perché non la si conosce davvero.
A dire il vero, vi è un altro motivo che ho riscontrato che spinge la gente a volerla mettere da parte: non essere disposti ad accettare la sua autorità spirituale.
Dando per scontato che le Scritture non sono opera di uomini letterati o filosofi. Considerata inoltre la semplicità che caratterizza il linguaggio, la profondità di significato dei contenuti è davvero ancora più significativa.
Su Giovanni 3:16, come su molti altri versi della Bibbia, si potrebbe scrivere un libro intero!
Se dovessi tradurre questo brano in maniera letterale, lo tradurrei come lo rinveniamo praticamente in tutte le sue versioni. Ma se devo trasmettere l’interezza della percezione che ne ho quando lo leggo in greco, proporrei anche le seguenti alternative.
Perché è così che Dio ha mostrato al mondo di amarlo: ha dato suo Figlio, l’Unigenito, affinché tutti coloro che credono in lui non periscano ma abbiano vita eterna.
ovvero
Perché è in questo modo che Dio ha amato il mondo: ha dato il suo Unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca ma abbia la vita eterna.
Voi chiederete: ma che cambia con la versione “tradizionale” del verso?
Nella Bibbia l’amore è un’azione. Lo è già dalla Genesi, dai Dieci Comandamenti, da quell’ “ama il prossimo tuo come te stesso” che troviamo nella Legge di Mosè espresso in una lingua che ne tramanda tutto il potenziale dinamismo e la forza che incide su chi ama e chi è amato, fino al punto che i due sono come fossero uno: io vedo me stesso nell’altro, non un altro, e mi comporto di conseguenza!
Imbevuti come siamo oggi di un sentimentalismo, che ereditiamo probabilmente proprio dai greci, corriamo il rischio di non percepire tutta la praticità e l’azione che richiede la Parola di dio quando ci parla di Amore o ci invita ad amare.
“Mariti, amate le vostre mogli” (Efesini 5:25) è un comandamento.
Ma non si dice forse: “nun se comanda o core”? Ovvero, “al cuor non si comanda”? E, allora, com’è possibile comandare l’amore e come può un uomo “costringersi” ad amare.
Il fatto è che la Scrittura qui non dice: “bruciate di passione per le vostre mogli”, come è tentato di capire chi si approccia all’amore come mero sentimento. Fu per questo che tempo fa una persona ebbe a chiedere perplessa: “Come si può imporre l’amore”?
L’amore inteso come squilibrio chimico, non lo puoi indurre. Ma quello non è amore vero. Ed è per questo che finisce: è infatti solo la sensazione di benessere che ricaviamo dalla presenza o la mancanza che sentiamo per l’assenza di una persona. Si tratta di amore “sensuale” e dipende dal piacere personale che ne ricaviamo.
La Scrittura parla di un altro tipo di amore. Un amore che è azione e che è dare.
Infatti Efesini 5:25 continua così,
Mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la chiesa e ha dato sé stesso per lei.
Quando Gesù dice,
Ama il prossimo tuo come te stesso
non si riferisce alla tenerezza astratta indotta dalle immagini che scorrono in tv o su facebook. Ma alla quotidianità! Gesù ci invita a trattare gli altri come noi vorremmo essere trattati dagli altri. Altrove infatti Gesù spiegò il concetto con altre parole,
Tutte le cose dunque che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro (Matteo 7:12)
Quindi l’amore non è un sentimento, o forse dovrei dire, non è un sentimento soltanto, ma è fare, fare bene, trattare il prossimo come fossimo noi stessi, trattarlo come vorremmo che ci trattasse.
Guardate la forza delle parole di Giovanni, altrove, nella sua prima epistola
“Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi; anche noi dobbiamo dare la nostra vita per i fratelli. Ma se qualcuno possiede dei beni di questo mondo e vede suo fratello nel bisogno e non ha pietà di lui, come potrebbe l’amore di Dio essere in lui? Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e in verità”. (1 Giovanni 3:16-18)
L’Amore vero, l’Amore che viene da Dio e che Dio ci insegna, non è un’emozione da contemplare e di cui gioire finché dura, è azione, energia, agire.
Torniamo quindi a Giovanni 3:16. Leggendo questo brano in lingua originale – più che nella traduzione – percepisco tutta l’enfasi del testo sul “come”, sul “modo in cui” Dio ci ama.
Ciò è importante. Forse addirittura fondamentale. Perché, tutti sono d’accordo che Dio sia amore e che ci ama. Ma sempre meno persone comprendono che ci ha amato dando Suo Figlio Gesù Cristo, per la nostra salvezza.
Scrive infatti lo stesso Giovanni altrove.
In questo si è manifestato per noi l’amore di Dio: che Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, affinché, per mezzo di lui, vivessimo.(1 Giovanni 4:9)
L’umanità di oggi è come quel figlio capriccioso o indolente al quale i genitori hanno dato e danno tutto, ma che trova sempre il modo per lamentarsi,
– perché non ha la moglie che desidera
– perché non ha marito
– perché non si guadagna abbastanza al lavoro
– perché la nostra erba è sempre meno verde di quella del nostro vicino
In realtà in questa vita ci sarà sempre qualcosa che non avremo e un motivo per il quale lamentarci.
Ma se non saremo grati a Dio per il meraviglioso dono di Suo Figlio, come speriamo di potere apprezzare tutti gli altri suoi doni o persino di riconoscerli come tali – il lavoro, la salute, la fede, ecc.
Giovanni 3:16 non ci dice soltanto “quanto” Dio ci ama, bensì come in concreto ci ha amato. Ci invita, inoltre, qualora non lo avessimo ancora fatto, ad accettare questo amore, credendo. Come ci mette anche in guardia dalle conseguenze per chi tale amore lo disprezza:
Infatti Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è giudicato; chi non crede è già giudicato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.(Giovanni 3:17-18)
Il mio corso di lezioni di greco biblico è un manuale per lo studio della lingua originale del Nuovo Testamento concepito per i principianti. Qui di seguito troverai le prime lezioni complete di files audio per aiutarti ad imparare a leggere l’alfabeto greco.
Non è facile tradurre. Bisogna valutare molte cose prima di stabilire che metodo adottare, valutando i destinatari del proprio lavoro, innanzi tutto e poi se si tratta di un testo che andrà ad essere utilizzato per la semplice lettura o per lo studio.
Il mio nuovo libro “IN PRINCIPIO…” è uno studio sul prologo di Giovanni. Ecco la versione che proporrò – soggetta ancora ad essere rivista. Ho tradotto cercando di far comprendere al lettore italiano del XXI secolo le sfumature del testo greco e del sostrato ebraico. Cosa non facile e che può anche esporre a critiche, dovendo qua e là fare delle scelte che vanno oltre la letteralità del testo. In particolare, è noto l’uso della congiunzione “e” in ebraico, che ha un senso molto più ampio della nostra semplice congiunzione. Il testo greco risente di questo semitismo. Nella nostra lingua non iniziamo mai delle frasi con “e”, ma in ebraico questa è una consuetudine. Noi preferiamo alternare “quindi”, “allora”, “comunque”, ecc. La “e” compare circa 17 volte in 18 versi. Si tratta di un uso che in italiano non ha paralleli. Se invece apriamo il libro della Genesi in ebraico, o anche nelle sue traduzioni letterali, troveremo la “e” all’inizio di quasi ogni frase. Questo ho cercato di smussarlo nella traduzione. Altri dettagli li discuto di seguito, dopo la traduzione.
GIOVANNI 1:1-18.
“In principio era Colui che è la Parola
Egli era con Dio
ed era Dio.
Egli era in principio con Dio.
Tutto è stato creato tramite Lui e senza Lui nulla sarebbe venuto all’esistenza di ciò che è stato creato.
In Lui era la Vita e la Vita era la luce degli uomini.
La luce splende nelle tenebre perché le tenebre non la possono sopraffare.
Vi fu un uomo, mandato da Dio, il cui nome era Giovanni. Egli venne per testimoniare della Luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui.
Egli non era la Luce, ma era stato inviato affinché testimoniasse della Luce.
Colui che è la Luce vera, che illumina tutti gli uomini che vengono al mondo, era.
Era nel mondo,
il mondo è stato creato per mezzo di Lui,
ma il mondo non lo ha conosciuto.
Venne quindi ai suoi,
ma i suoi non l’hanno ricevuto.
Ma a coloro che l’hanno ricevuto, i quali credono nel suo nome, Egli ha dato l’autorità di essere figli di Dio. Costoro non da sangue, né per volontà della carne, né per volontà d’uomo, ma sono generati da Dio.
Colui che è la Parola si è incarnato ed ha dimorato fra noi. Noi abbiamo osservato la Sua gloria, quella dell’Unigenito dal Padre, pieno di grazia e verità.
Giovanni ha testimoniato di Lui gridando: “Egli è colui del quale io vi dissi: ‘Colui che viene dopo di me, ma ha la precedenza su di me, perché era prima di me’”.
Tutti abbiamo ricevuto dalla sua Pienezza, grazia su grazia. Perché la Legge è stata data tramite Mosè, ma la Grazia e la Verità per mezzo di Gesù Cristo.
Dio non lo ha visto mai nessuno. Il Figlio unigenito che è nel seno del Padre (è la Parola che) lo ha rivelato”.
Discuto brevemente delle mie scelte, in maniera da poter raccogliere qualche commento che mi aiuti nella stesura del mio libro, per rendere un servizio migliore al corpo di Cristo.
Ho tradotto: Colui che è la Parola
Il problema che incontra ogni traduttore nella versione della parola greca logos, è che essa è al maschile in greco, ma al femminile in italiano. Il problema nasce dal fatto che poi, per conseguenza, passare al pronome soggetto maschile usato nelle frasi che seguono riferite al logos crea un errore grammaticale in italiano, anche se il brano è troppo noto per mandare fuori strada il lettore. Buona la soluzione della Nuova Diodati, che cerca di aggirare l’ostacolo. Io ho preferito sfruttare l’occasione portami dalla presenza dell’articolo davanti a logos, ho, ed ho tradotto Colui (ho) che è (sottinteso) la Parola (logos).
Ho tradotto: Tutto è stato creato tramite Lui
Sembra interessare poco gli autori biblici di incorrere in ripetizioni, che invece suonano piuttosto male nella nostra lingua. Ho alternato “tramite” a “per mezzo di” proprio per evitare una ripetizione.
Ho tradotto: La luce splende nelle tenebre perché le tenebre non la possono sopraffare.
Qui ho osato dare un significato tutto semitico ad “e”, traducendo con “perché”. Credo che ci possa stare.
Ho tradotto: ma era stato inviato affinché…
Ho cercato di mettere in grassetto le parole che palesemente non vi sono nel testo originale ma che possono chiarire il senso di una frase nella nostra lingua.
Ho tradotto: ma il mondo non lo ha conosciuto.
Vorrei trovare un verbo o una espressione più adatta che semplicemente “conosciuto”, che è la traduzione letterale del verbo, ma non trasmette l’idea dell’originale. Vi è infatti in greco più di un modo per esprimere il “conoscere”. Giovanni stesso è molto attento nei suoi scritti ad usare l’uno o l’altro termine disponibile in greco. Mi ripropongo di valutare se posso utilizzare un altro vocabolo senza passare dalla traduzione alla parafrasi del testo.
Ho tradotto: Venne quindi ai suoi
Ho cercato di evidenziare ulteriormente un crescendo che mi sembra evidente.
Ho tradotto: non da sangue, né per volontà della carne, né per volontà d’uomo
Credo che queste espressioni siano intrise di cultura ebraica, e mirano a togliere ogni dubbio che solo Dio può fare di noi dei figli di Dio: “non si eredita, non è per appartenenza, né perché lo decide un uomo”, è questo il senso delle parole di Giovanni – ma mi discosterò così tanto dal testo solo nelle note, per non scadere, come ho detto prima, in una parafrasi del testo.
Ho tradotto: Colui che è la Parola si è incarnato ed ha dimorato fra noi
Menomale che in italiano esiste il verbo “incarnarsi” che può rendere in maniera meno oscura il letterale “si è fatto carne”. Anche qui ho tradotto ho logos con “colui che è la Parola”.
Ho tradotto: Il Figlio Unigenito che è nel seno del Padre (è la Parola che) lo ha rivelato
Come ho ampiamente giustificato nelle mie varie pubblicazioni, prediligo senza remore il testo Maggioritario. Qui esso si traduce con grande semplicità “Figlio Unigenito”. Non invidio i sostenitori del testo alternativo – ne esistono un paio di versioni, con e senza articoli – che, a mio avviso, non ha senso ed è solo una corruzione gnostica del testo originale.
Aggiungo “è la Parola che” prima di “lo ha rivelato” perché non so trovare un termine che traduca il greco senza fare perdere il senso della frase. Esso infatti letteralmente corrisponde a “dichiarato”, si tratta di una rivelazione verbale, perché fa riferimento alla “Parola” iniziale, al logos, che, appunto, rivela Dio, lo rende visibile e comprensibile.
Nel libro proporrò anche una traduzione interlineare ultra letterale, con note testuali e approfondimenti sulle parole in greco.
C’è un’affermazione nel Nuovo Testamento davvero degna di seria nota, e che riguarda il vangelo di Luca. La rinveniamo in una epistola di Paolo. In 2 Corinzi 8:18, scrive l’apostolo: “E noi abbiamo mandato con lui (con Tito) il fratello (Luca) la cui lode è per l’evangelo in tutte le chiese.”
Il fratello menzionato da Paolo ed associato a Tito è Luca. Ciò è dimostrabile anche dalla parte finale della narrazione del libro degli Atti degli Apostoli, dove il racconto in prima persona fa intendere che l’autore del libro si sia associato a Paolo nei suoi spostamenti e dal prosieguo della citazione dalla seconda epistola ai Corinzi: “non solo, ma egli è anche stato scelto dalle chiese come nostro compagno di viaggio in quest’opera di grazia, da noi amministrata per la gloria del Signore stesso e per dimostrare la prontezza dell’animo nostro.” (2 Corinzi 8:19)
Possiamo concludere che quando l’apostolo Paolo scriveva quell’epistola, Luca era già conosciuto “in tutte le chiese” a motivo del suo Vangelo. È un’affermazione importante ed una testimonianza di non poco conto.
Eppure, nelle versioni oggi comunemente disponibili, il testo è totalmente diverso dalla traduzione (mia) che ho proposto.
Il testo greco originale di questo brano legge: “συνεπέμψαμεν δὲ μετ᾿ αὐτοῦ τὸν ἀδελφὸν οὗ ὁ ἔπαινος ἐν τῷ εὐαγγελίῳ διὰ πασῶν τῶν ἐκκλησιῶν”.
La Riveduta Luzzi traduce: “E assieme a lui abbiam mandato questo fratello, la cui lode nella predicazione dell’Evangelo è sparsa per tutte le chiese”. Il testo originale, però, non dice “questo” fratello, bensì “il” fratello. La frase “nella predicazione” non c’è nell’originale!
La Nuova Riveduta traduce: “Insieme a lui abbiamo mandato il fratello il cui servizio nel vangelo è apprezzato in tutte le chiese”. La parola “servizio” traduce male la parola che nell’originale invece è “lode”. La parola “apprezzato” non è nel testo greco!
Il tentativo, lo capisco, è quello di dare un significato alla frase di Paolo. Ma forse nel farlo, assecondando visioni preconcette che ritengono impossibile la composizione del vangelo di Luca già in un’epoca tanto remota, non si rischia di allontanarsi dal semplice ed immediato senso letterale della frase dell’apostolo? È per questo motivo che, in via generale, quindi, con le dovute eccezioni ed una ovvia ragionevole (sana) flessibilità, prediligo di solito le traduzioni letterali.
Una traduzione letterale di 2 Corinzi 8:18, e, secondo me, più corretta, la troviamo nella versione della CEI: “Con lui (con Tito) abbiamo inviato pure il fratello (Luca) che ha lode in tutte le Chiese a motivo del vangelo”.
Se riteniamo autentico il prologo di Luca alla sua narrazione evangelica e non un artificio letterario, il suo essersi diligentemente informato presso i testimoni oculari per proporre una narrazione accurata ed attendibile, colloca l’opera dell’evangelista nel periodo apostolico e tale datazione è coerente con l’affermazione di Paolo nella sua lettera.
Proprio negli stessi scritti di Luca abbiamo un’altra conferma.
Leggendo gli Atti degli Apostoli, notiamo subito nell’introduzione che, sebbene questo libro si trovi nelle nostre Bibbie dopo il vangelo di Giovanni, esso è stato composto dal medesimo autore del terzo vangelo ed in un secondo momento rispetto a quello.
“Nel mio primo libro, o Teofilo, ho parlato di tutto quello che Gesù cominciò a fare e a insegnare … ” (Atti 1:1)
Un altro punto fermo della nostra discussione è che gli Atti degli Apostoli si concludono … o meglio non si concludono: la narrazione, infatti, si arresta ed è facile dedurre che l’autore non avesse più nulla da narrare al tempo passato.
“E Paolo rimase due anni interi in una casa da lui presa in affitto, e riceveva tutti quelli che venivano a trovarlo, proclamando il regno di Dio e insegnando le cose relative al Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento”. (Atti 28:30-31)
Da questa conclusione del libro è facile argomentare che la sua composizione deve essere avvenuta dopo due anni della prigionia a Roma dell’apostolo, ma prima della sua eventuale liberazione o del suo martirio; viceversa Luca ne avrebbe certamente parlato.
Tenendo presente quanto detto, risulta evidente l’antichità del terzo Vangelo, che precede la composizione degli Atti di qualche tempo, sebbene non sappiamo quanto tempo prima sia stato scritto. Di certo prima che Paolo partisse per il suo terzo viaggio missionario e scrivesse la sua seconda epistola, cioè tra il 54 ed il 58 d.C. E con sufficiente anticipo perché la sua opera si diffondesse in maniera tanto estesa da motivare l’affermazione dell’apostolo.
5 luglio 2020
La bella immagine – che comunque ho usato anche altrove perché di facile reperimento sul web – con la citazione, l’ho presa dal web, cercando su google e si trova su https://www.uccronline.it. Lo aggiungo per dovere di correttezza.
L’articolo è adattato dal testo del mio libro “7Q5, il vangelo a Qumran?”
7Q5 IL VANGELO A QUMRAN?
7Q5 è un piccolo frammento di papiro ritrovato in una delle grotte di Qumran facente parte di quella straordinaria scoperta che sono i cosiddetti rotoli del Mar Morto. Nel 1972 Josè O’ Callaghan avanzò l’ipotesi che il frammento di papiro in greco chiamato 7Q5 fosse quanto restava di una copia del Vangelo di Marco. Una tale eventualità mette in discussione le datazioni dei Vangeli date dagli studiosi, per renderle più coerenti con l’antica tradizione cristiana.
Poco più di 300 anni prima della nascita di Gesù, quando Israele era parte dell’immenso impero persiano, Filippo, re di Macedonia, morì lasciando il trono ed i suoi sogni al giovanissimo figlio Alessandro. Quest’ultimo raccolse più che degnamente l’eredità del padre riuscendo ad unificare e mobilitare l’intera Grecia contro l’odiato nemico persiano.
Alessandro mosse da impavido condottiero, guidando il suo popolo contro il più grande regno del tempo. Giunse in Anatolia e da lì, una vittoria dietro l’altra, percorse la via per l’Egitto. Passò per Israele, lasciando un segno indelebile nella storia del popolo ebraico, come testimoniano la diretta menzione di lui fatta nel libro biblico di Daniele e le notizie riportate dallo storico Giuseppe Flavio.
Giunto in Egitto da trionfatore, vi fondò la città di Alessandria che divenne la capitale del sapere mondiale per molti degli anni a venire, con la sua immensa biblioteca ed il fermento intellettuale che la percorreva in ogni direzione del pensiero umano.
Dall’Egitto, Alessandro partì per affrontare una volta per tutte il suo più grande nemico: il re persiano, del quale riuscì a disfarsi nonostante l’inferiorità numerica; Dario fuggì letteralmente dal campo di battaglia.
In pochi anni (circa 10) il re di una piccola nazione, la Macedonia, era divenuto il dominatore assoluto di un territorio la cui estensione non aveva avuto eguali in tutta la storia dell’umanità. La leggenda dice che Alessandro, ad un certo punto, pianse perché non vi erano più terre da conquistare.
Sebbene nessuno gli fosse pari militarmente, il macedone dovette molto presto fare i conti con un nemico invincibile: morì, sembra a causa di una febbre, alla giovane età di 33 anni, in Babilonia.
Il suo vastissimo impero venne ripartito fra i suoi generali.
L’estensione della conquista di Alessandro Magno aveva gettato le basi per la diffusione della lingua e della cultura greca. Dopo la sua morte, questa avanzata non si arrestò. Al contrario, l’ellenizzazione, questo processo di colonizzazione intellettuale da parte del mondo greco, continuò inarrestabile.
L’Egitto finì in mano al generale Tolomeo, il quale fondò l’ultima dinastia di faraoni. Lo storico Giuseppe Flavio riferisce che Tolomeo Filadelfo (Libro XII delle Antichità Giudaiche) per incrementare la sua biblioteca, già comunque ricca di circa 200.000 libri, sponsorizzò la traduzione in greco della Legge mosaica. Questa versione prese il nome di Septuaginta o Settanta (abbreviata di solito “LXX”) perché le leggende che ne fanno quasi una versione guidata in maniera sovrannaturale, sostengono che i traduttori originari fossero 72.
Il greco rimase la lingua più diffusa del mondo antico, anche quando il dominio mondiale passò nelle mani dei romani.
Fu quindi in un’atmosfera culturale dominata profondamente dal prestigio universale ed indiscusso della lingua e cultura greche che il cristianesimo mosse i suoi primi passi.
Se consideriamo l’aperto mandato di Gesù agli apostoli, “Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli” (Matteo 28:19) comprendiamo benissimo perché il Nuovo Testamento venne molto probabilmente scritto e ci è comunque giunto in manoscritti in greco. Come oggi molti documenti vengono redatti in inglese per garantire una più vasta diffusione mondiale, era logico che allora, volendosi sganciare dai confini nazionali dell’ebraismo, il cristianesimo esprimesse e diffondesse le proprie Scritture nella lingua che aveva la massima diffusione.
Sebbene Jean Carmignac abbia in maniera convincente esposto la propria teoria sull’esistenza di uno o più vangeli semitici alla base dei nostri Matteo e Marco[1], non vi sono prove storiche oggettive che permettono concretamente di avvalorare questa tesi. La realtà delle evidenze manoscritte per l’originale del Nuovo Testamento (più di 5000 manoscritti) è interamente a favore di una composizione in lingua greca – ciò sebbene nessuno neghi la dipendenza dal pensiero ebraico delle Scritture cristiane.
Non possiamo immaginare che il greco fosse presente nel dialogo di tutti i giorni fra gli ebrei del tempo o nelle strade di Gerusalemme ma di certo, come attestano vari ritrovamenti, il greco era una lingua nota ed in uso.
Considerando poi anche le intense campagne di ellenizzazione condotte dalle dinastie dei Tolomei e dei Seleucidi, che avevano interessato anche i territori di Israele, il greco doveva aver avuto una diffusione ed un’importanza paragonabile a quella dell’inglese nelle varie colonie dell’impero britannico. Questa lingua doveva essere conosciuta anche dagli apostoli. E’ oltremodo difficile immaginare che gli autori di alcuni dei libri del Nuovo Testamento, comunque di nazionalità e cultura ebraica, abbiano imparato la lingua greca di proposito per comporre le loro epistole o i vangeli. Diversi gli indizi in questo senso, sparsi in tutto il Nuovo Testamento; non ultimo il tipo di greco nel quale è stato scritto, cioè il cosiddetto Koiné, la forma colloquiale e non letteraria di quella lingua.
Nel quarto vangelo è indizio molto forte della sua composizione originale in lingua greca la sfida aperta nel definire Gesù “il Salvatore del Mondo” (Giovanni 4:42), termine che proprio in greco era riferito all’imperatore romano Nerone (ὁ σωτὴρ τοῦ κόσμου) ed inciso su alcune monete dell’impero che lo raffiguravano. E’ lo stesso Giovanni, poi, che ci informa che l’iscrizione sulla croce era in latino, ebraico e greco (Giovanni 19:19-21), confermandoci che la Palestina era allora una nazione multilingue.
Nel vangelo di Matteo vi è un’espressione greca molto caratteristica. La troviamo già all’inizio di questo scritto: “… come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade …” (Matteo 6:2). Più volte Gesù si rivolse ai religiosi del suo tempo in questi termini: “Ma guai a voi, scribi e farisei ipocriti”, (Matteo 23:13, 14, 15, 23, 25, 27, ecc …). Il termine “ipocriti”, reso col greco “ὑποκριταί”, viene preservato intatto persino nell’importante edizione ebraica di questo vangelo detta di Shem-Tob, della quale parlerò in dettaglio più avanti. Esso è, infatti, in Matteo 6:2, semplicemente traslitterato in lingua ebraica איפוקראטיס. “Ipocrita” è un termine molto specifico, legato al mondo greco, alle rappresentazioni teatrali e fa aperto riferimento alla parte recitata dall’attore in scena. Alcuni sostengono che in questo frangente lo stesso Gesù, nei suoi discorsi, abbia utilizzato la parola greca riportata nei vangeli e non un equivalente ebraico o aramaico.
Il film “La Passione di Cristo” di Mel Gibson è stato girato in aramaico. Ma ad un certo punto, Pilato rivolgendosi a Gesù gli chiede in lingua greca “τί ἐστιν ἀλήθεια;” (Che cos’è verità?): è molto probabile che questo risponda alla realtà del dialogo avuto fra Gesù e Pilato.
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[1] Jean Carmignac, La nascita dei Vangeli Sinottici, edizioni Paoline. E’ un libro stupendo che consiglio sia agli specialisti che al lettore attento della Bibbia.
Giacomo 2:14 è un famoso brano del Nuovo Testamento che da decisamente l’impressione di essere in contraddizione con le famose affermazioni degli scritti di Paolo sulla salvezza per mezzo della fede.
“Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti; infatti siamo opera sua, essendo stati creati in Cristo Gesù per fare le opere buone, che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo.” (Paolo agli Efesini 2:8-10 – Nuova Riveduta)
In una lucida e chiara affermazione l’apostolo Paolo riassume qui sopra quanto altrove aveva già spiegato per esteso, ai galati ed ai romani in particolare.
Quanto però scrive l’apostolo Giacomo nella sua epistola sembra sostenere esattamente il contrario della dottrina paolina.
“A che serve, fratelli miei, se uno dice di aver fede ma non ha opere? Può la fede salvarlo?” (Giacomo 2:14 – NR)
Se ne sarà reso conto lo stesso lettore: i due brani citati, opera di due autori sacri diversi, si trovano in due punti diversi della Scrittura, e letti così come li troviamo nelle nostre traduzioni in italiano della Bibbia, sembrano dire due cose diverse.
Vi sono diversi fatti che vanno considerati nell’interpretazione della Sacra Scrittura: Per comprendere infatti cosa esattamente intendesse dire un autore (e ciò in realtà è vero nella lettura di qualunque testo) bisogna, per grandi linee, tenere conto delle circostanze che inducono a scrivere, del contesto e della lingua utilizzata. In questo articolo considereremo in particolare il fenomeno linguistico in Giacomo 2:14 che, insieme al contesto, concorre a far comprendere che la contraddizione fra le affermazioni dei due apostoli è solo apparente. Infatti, un attento esame ed un corretto raffronto dei vari passi biblici ci offrono un quadro completo, dove la Parola ci insegna che la fede in Dio è, si, una realtà interiore ma si manifesta e rende visibile in azioni che ne comprovano l’esistenza: le opere di cui parla Giacomo. La Bibbia non è una sterile raccolta di precetti o regole, di storielle moraleggianti o epiche gesta del passato. Essa è ispirata da Dio e data all’uomo perché egli abbia la certezza della propria fede e la viva in maniera attiva, quotidiana, offrendo il proprio contributo positivo, aiutando ed edificando il prossimo, testimoniandogli fattivamente – e non solo verbalmente – la salvezza del proprio Dio.
Paolo scrisse così al suo pupillo Timoteo: “Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché (greco ἵνα) l’uomo di Dio sia
completo ( greco ἄρτιος ) e ben preparato per ogni opera buona.” (2 Timoteo 3:16-17)
Nella lingua greca la posizione delle parole in una frase non ne indica il caso, come accade in italiano: ad esempio il complemento oggetto non è tale per la posizione che occupa, bensì per la declinazione. Ne consegue che scrivendo a Timoteo, l’apostolo Paolo può enfatizzare subito che lo scopo della Scrittura è di rendere “ἄρτιος” (completo) l’uomo di Dio ponendo questo aggettivo, per
rafforzare la sua affermazione, subito dopo “ ἵνα”, “affinché”. E’ significativo, a sostegno di quanto affermavo prima, che accanto a quella che è ritenuta (anche se da alcuni indirettamente) la formulazione più teorica dell’ispirazione della Sacra Scrittura Paolo si premuri di chiarire il senso dell’intervento di Dio: la Bibbia è ispirata perché, affinché, allo scopo di, preparare l’uomo attivamente a ciò che in essa apprende. Vediamo il testo greco originale di Giacomo 2:14.
La prima volta che compare la parola “fede” non è preceduta dall’articolo (πίστιν). La seconda volta, invece, è preceduta dall’articolo (ἡ πίστις). Ciò non è casuale. Premetto che in greco si parla semplicemente di articolo, non essendovi un articolo indeterminativo da contrapporre a quello determinativo. Quindi per noi di lingua italiana, nella quale esistono determinativi ed indeterminativi, nasce il pericolo di cercare una logica (quella italiana) che in greco non esiste. In questo caso particolare ci troviamo davanti ad un esempio di articolo anaforico, che per mezzo di un riferimento specifico riconduce ad un sostantivo precedentemente utilizzato. Quindi quando è presente l’articolo la seconda volta che la parola “fede” compare (ἡ πίστις), dobbiamo comprendere che ciò sia un riferimento specifico alla sua prima occorrenza (πίστιν). Alla luce di ciò propongo di seguito una traduzione meno letterale – in inglese si chiamerebbe expanded, ovvero amplified, in italiano direi estesa – allo scopo di comunicare il senso di come a mio avviso, alla luce della grammatica greca, dovrebbe correttamente intendersi questo brano biblico.
“A che serve, fratelli miei, se uno dice di aver fede ma non ha opere? Può la fede, questa fede che il tale dice di avere e che non produce opere, salvarlo?”
Quindi il riferimento dell’apostolo Giacomo non è alla fede che non salva, in generale, come regola, bensì al caso specifico di chi dice a parole di aver fede ma non ha opere che ne dimostrino l’esistenza. Nessuna contraddizione fra il passo biblico che abbiamo esaminato qui e le idee espresse dall’apostolo Paolo nelle sue epistole. Anzi, perfetto accordo nella ricerca del giusto equilibrio fra fede ed opere. Stesso equilibrio che troviamo anche nella prima epistola dell’apostolo Giovanni ed in tutto il Nuovo Testamento. La somma di tale equilibrio sta nelle parole che lo stesso Giacomo utilizzerà poco più avanti:
“Tu hai la fede, e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le tue opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede.” (Giacomo 2:18 – NR)
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Questi i libri sul greco che ho pubblicato in italiano.
Secondo i criteri di datazione che ho già proposto altrove, sono convinto che i libri che fanno parte del Nuovo Testamento furono scritti tutti entro il I secolo d.C. in quella forma di greco koinè che ho già definito come greco biblico. E’ vero che in quel periodo l’impero romano dominava da tempo tutte le terre che si affacciavano sul Mediterraneo, ma la sua potenza militare non era riuscita a spodestare la cultura e la lingua greche. Come la caduta dell’impero britannico non ha significato la fine della diffusione della lingua e cultura inglese – che continua inarrestabile – anche nel mondo antico, con la morte di Alessandro Magno, il grande promotore dell’ellenismo nel mondo, lo smembramento del suo vastissimo impero prima e l’inarrestabile e sistematica conquista romana poi, non riuscirono a porre fine al dominio mondiale della cultura greca. Già nel III secolo a.C., in Egitto, sotto la dinastia (greca) dei Tolomei, si era cominciato a tradurre la Bibbia ebraica in greco. Questa versione fu detta – e tale nome rimane fino ad oggi – dei Settanta (LXX), ovvero Septuaginta, a motivo del numero (fra storia e leggenda) dei traduttori originari del Pentateuco. In quale greco venne approntata questa antica versione? La lingua greca forniva almeno due possibilità di scelta. La prima era quella del greco classico, l’elegante ma rigido linguaggio letterario; la seconda era quella del greco Koiné, il greco parlato, più pratico e meno retorico, meno rigido, più fluido ed aperto all’innovazione ed al cambiamento – come sono di solito le forme colloquiali di tutte le lingue. La scelta della versione dei LXX ricadde sul Koiné. Ancora oggi la Settanta è oggetto di particolare studio ed offre spunti di riflessione sulla terminologia greca proposta per interpretare le parole ed i fatti della fede ebraica. Il mandato di Gesù agli apostoli era diffondere la buona notizia della salvezza a tutto il mondo.
“Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.” (Matteo 28:19)
” … mi sarete testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all’estremità della terra.” (Atti 1:8)
La cosa più ovvia era che gli apostoli ed i loro discepoli ripiegassero sull’utilizzo del greco per le Scritture sacre della nuova fede, in modo da poterne assicurare la diffusione e la lettura al di fuori della cerchia ristretta del mondo ebraico. Anche per la composizione del Nuovo Testamento, la scelta non ricadde su una lingua colta e sofisticata, ma su un linguaggio che rendeva accessibile e chiaro il messaggio evangelico. Continuando il percorso già felicemente inaugurato dalla LXX, le Scritture cristiane furono scritte in Koiné. Ovviamente il Nuovo Testamento, da un punto di vista squisitamente letterario, non è opera di un solo scrittore. Purtroppo nelle sue versioni in italiano, l’intervento determinante del traduttore – sostanzialmente, sebbene non in maniera premeditata – uniforma lo stile dei singoli libri che lo compongono. Leggendolo invece nell’originale greco, questa omogeneità non si riscontra affatto. Mettendo Marco a confronto con Giovanni, è evidente la netta differenza di stile e di linguaggio. Paolo, poi, è ancora diverso. Per non parlare di Luca, la cui introduzione al vangelo è scritta in un greco piuttosto sofisticato – anche questo favorì la popolarità della sua opera presso alcune fazioni gnostiche avverse all’ebraismo. Tutti gli autori del Nuovo Testamento – mi sento di dire, quindi, anche l’Autore dietro gli autori che è lo Spirito Santo – hanno rinunciato agli schemi fissi, alla retorica artificiosa della lingua letteraria, preferendo la vitalità ed immediatezza della lingua parlata. Le ripercussioni di tale scelta sono state stupefacenti e le sperimentiamo quotidianamente nella lettura della Parola di Dio, nel modo in cui la comprendiamo e viviamo. Il greco del Nuovo Testamento è quindi semplice e chiaro, ma non elementare o banale: non è sofisticato, perché vuole innanzi tutto comunicare; ma non rinuncia ad esprimere una propria identità e quelle caratteristiche che ne fanno un fenomeno letterario di tutto rispetto. Vale la pena evidenziare il felice connubio fra cultura ebraica e lingua greca. Per quanto riguarda invece le influenze della cultura greca su quella ebraica, le idee sono state diverse in vari ambienti ed in vari periodi storici. Alcuni hanno attribuito un ruolo preponderante al senso del contributo greco – a mio avviso immotivatamente: l’ebraismo non disconosceva di fatto i meriti del mondo greco e accettava il valore della sua lingua, ma non era certamente pronto a soccombere ai suoi schemi culturali. La tradizione ebraica era troppo forte e troppo sicura della propria identità ed eredità perché potesse facilmente cedere ad influenze esterne. Ecco quindi che il linguaggio della LXX e quello del Nuovo Testamento, suo logico prosieguo, è allo stesso tempo semplice, ma innovativo: chiaro, ma vivo e stimolante.
La parola greca “agape” (in alfabeto greco: αγαπη), famosa anche al di fuori della cerchia di chi studia il greco biblico, è propria della traduzione dei LXX e del Nuovo Testamento: non la si trova infatti nel greco classico.
La famosa parola greca “zoe” (ζωη) che significa “vita”, è stata adottata dalla Bibbia, in particolare dal Nuovo Testamento e dagli scritti di Giovanni, per ricevere connotati più definiti e specifici di quanto il termine greco in sé non intendesse originariamente comunicare. E’ incredibile come un vocabolo colloquiale sia stato arricchito di significato al punto da reinventarlo quasi del tutto, mantenendo soltanto la riconoscibilità della sua forma, per trasmettere dettagli nuovi e meravigliosi. L’uso giovanneo della parola “zoe”, “vita” in particolare, le dona connotati di una profondità spirituale davvero notevole.
Un vocabolo degno di nota particolare è quello che troviamo nell’Apocalisse: “pantokrator” (παντοκράτωρ), cioè “onnipotente”. Il contesto in cui esso viene utilizzato è solenne, in armonia con la forza di un’espressione di questo genere. Al di fuori dell’Apocalisse, il Nuovo Testamento lo riporta soltanto in 2 Corinzi 16:18.
“Io sono l’alfa e l’omega”, dice il Signore Dio, “colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente”. (Apocalisse 1:8)
Giovanni prese in prestito la parola “pantokrator” dai brani dell’Antico Testamento dove i LXX avevano reso così l’espressione ebraica che le nostre Bibbie traducono in italiano “SIGNORE degli Eserciti” ovvero “Eterno degli Eserciti”. In Nahum 2:13, ad esempio, la LXX riportava Kyrios Pantokrator (κύριος παντοκράτωρ), letteralmente: “Signore Onnipotente”. Perché questa scelta da parte dei traduttori in greco dell’Antico Testamento? Pantokrator “(che pure è stato usato per tradurre Sebaoth anche nei libri più antichi) interpreta l’espressione nel significato più universale: non nel significato originario di <<Dio degli eserciti (di Israele)>>, che dà al suo popolo la vittoria sui nemici, bensì nel senso di <<Dio dominatore di tutte le potenze terrestri e celesti.>> […] l’evoluzione di significato dell’espressione ebraica Sebaoth ha la sua continuazione nella parola greca, che fu scelta per tradurlo (o addirittura coniata a questo scopo) …” – Orsolina Montevecchi, Bibbia e papiri, Luce dai papiri sulla Bibbia greca, pag. 39. Le affermazioni di questa studiosa gettano luce sul fenomeno della cultura religiosa ebraica che si spinge al di fuori dei suoi confini, per divenire la cultura propria di chiunque voglia avvicinarsi alla fede del Dio unico ebraico. In questo contesto non sarà inopportuno notare un ulteriore dettaglio nelle parole dell’Apocalisse: quando Giovanni si riferì a Dio come Colui “che è, che era e che viene”, esprimeva una valenza – evoluzione universalistica di un termine ebraico, simile a quella che ha portato alla nascita ed uso di “pantokrator”. Giovanni conosceva il Tetragramma, YHVH (in ebraico ), il Nome di Dio rivelato a Mosè nell’Antico Testamento, ma anziché proporlo nell’originale, preferì trasmetterne il significato al lettore di lingua greca. Le quattro consonanti ebraiche vengono così vocalizzate nel testo Masoretico, : aggiungendo semplicemente le vocali alla sequenza delle consonanti, avremo nel nostro alfabeto YeHoVaH. In proposito Asher Intrater, ebreo messianico, dice qualcosa che può spiegare il perché delle parole dell’apostolo Giovanni: “Aggiungendo le vocali “e”, “o”, “a” alle consonanti YHVH, si ottiene il nome YeHoVaH. In questa struttura verbale, la “e” (sh’va) indica il tempo versale futuro, la “o” (holom) il presente e la “a” (patach) il passato, dando al nome YeHoVaH il significato di “Egli sarà, Egli è, Egli era”: in altre parole, l’Eterno”. Asher Intrater, “Chi ha pranzato con Abrahamo?”, edizioni Perciballi, novembre 2012, p. 162. Potremmo quindi ipotizzare che Giovanni stesse letteralmente traducendo ed universalizzando l’espressione ebraica יהוה צבאות (Adonai Sebaoth) tradotta di solito nell’Antico Testamento “Signore degli Eserciti”.
Molto importante per la corretta lettura del senso dell’incarnazione del Figlio di Dio, è la comprensione del termine greco Logos (Λόγος) – utilizzato nell’originale greco del Vangelo di Giovanni. Di solito questo viene tradotto “Parola” dai protestanti mentre i cattolici preferiscono “Verbo”, seguendo la lezione dell’antica versione latina della Bibbia.
“Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio.” (Giovanni 1:1)
Si tratta di un vocabolo importante perché nel mondo della filosofia greca il concetto di Logos era già esistente quando Giovanni scriveva il suo Vangelo. Ma ciò non deve indurre a cadere nell’errore di immaginare che l’apostolo si ispirasse a concetti estranei al mondo ebraico: anche qui, una terminologia presa in prestito dalla lingua greca, esprime un concetto profondamente semitico. Gli antichi scrittori cristiani di lingua greca – come Giustino (nel II sec. d.C.) – hanno colto l’occasione per esprimere il senso dell’incarnazione ai non ebrei, proprio sfruttando questa somiglianza fra il Logos greco e quello neotestamentario.
Nulla accade per caso, ne sono profondamente convinto. La lingua ebraica è nata e cresciuta con la fede nel Dio unico ed è per questo che esprime meglio di ogni altra il linguaggio delle cose di Dio. Quella greca aveva raggiunto una grande diffusione ed una maturità perfetta proprio nel momento in cui venne a contatto con l’Antico Testamento: nelle mani giuste, permise di esprimere al meglio qualsiasi tipo di concetto, dal più concreto al più astratto. Divenne la lingua della Settanta prima e del Nuovo Testamento poi, il perfetto veicolo attraverso il quale la fede in Cristo poté essere diffusa in tutto il mondo.
Se non espressamente detto il contrario le citazioni bibliche sono tratte dalla Nuova Riveduta e il testo greco originale utilizzato è quello Maggioritario.
Le citazioni in greco non scoraggino il lettore che non ha nozioni di quella lingua: ho fatto di tutto perché l’articolo sia leggibile anche per lui.
Questa discussione ricalca argomenti e riprende quanto già detto nell’altro mio articolo La lingua del Nuovo Testamento, ma prospettiva e scopo delle due discussioni sono diversi.
Introduzione
Quando ci muoviamo nel campo delle lingue originali della Bibbia conviene farlo con la stessa attenzione con cui ci muoveremmo all’interno di un negozio di cristalli. Discutere delle lingue ebraica e greca può essere una benedizione, ma una loro errata o imprecisa comprensione rischia di allontanarci dal senso autentico della Sacra Scrittura piuttosto che aiutarci a comprenderlo meglio.
Ebbi a parlare con un mio lettore tempo addietro, il quale mi chiedeva quanto importante fosse secondo me la conoscenza linguistica per una migliore comprensione della Bibbia. Io risposi semplicemente che se bastasse conoscere l’ebraico per capire le Scritture, gli ebrei dovrebbero essere tutti cristiani. Ma è praticamente vero il contrario. Da tempo, quindi, ho concluso che c’è di più della semplice conoscenza linguistica dietro la comprensione del messaggio di Dio! E’ con questa consapevolezza che affronto anche discussioni su questioni così fondamentalmente complesse: senza l’assistenza dello Spirito Santo la conoscenza delle lingue bibliche vale ben poco.
Perché propongo questa riflessione? Sto studiando l’ebraico e mi imbatto sempre più spesso in chi si sforza di recuperare l’eredità ebraica della nostra fede cristiana alcuni fino al punto di tentare di ripristinare nella lettura della Bibbia nomi di Dio quali Yahweh o Elohim, chiamare Gesù Yeshua o gli apostoli con i loro nomi ebraici. Con tutto il rispetto che provo per gli studi di altri credenti, io non credo sia necessario un ritorno tanto radicale all’ebraismo per sentirsi di aderire con maggiore fedeltà alla fede degli apostoli. Anche perché dal Nuovo Testamento, dalle scelte che stanno dietro la sua composizione e dalla terminologia della fede cristiana che in esso rinveniamo, deduciamo che tutt’altro deve essere stato l’atteggiamento della Chiesa nascente.
Non mi fraintenda il lettore: non sto per nulla sottovalutando l’importanza del contributo della conoscenza della cultura ebraica per una migliore coscienza della nostra identità cristiana. Su questo argomento ho già scritto sottolineandone l’importanza nel mio studio Radici ebraiche della fede cristiana. Il tentativo di recuperare l’eredità linguistica del giudaismo dell’epoca di Gesù, però non può farci spingere all’estremo opposto, facendoci trascurare l’eredità linguistica universale che è implicita nell’uso della lingua greca scelta per il Nuovo Testamento.
Isaia 7:14
Passiamo ad esaminare subito un esempio concreto di ciò che sto dicendo. Isaia 7:14 legge così nella Nuova Riveduta:
“Perciò il Signore stesso vi darà un segno: Ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.”
La parola ebraica tradotta da questa versione della Bibbia con “la giovane” è העלמה (nel nostro alfabeto: ha-almah. NB. L’ebraico si legge da destra verso sinistra).
Nella stessa Nuova Riveduta questo brano viene citato nel Vangelo di Matteo nel seguente modo:
“Tutto ciò avvenne, affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “La vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele”, che tradotto vuol dire: “Dio con noi“. (Matteo 1:22-23)
L’originale greco di Matteo traduce la parola ebraica העלמה (ha-almah) con “ἡ παρθένος” (he parténos), quest’ultimo vocabolo corrispondente, senza alcun dubbio, a “la vergine”.
La citazione dell’evangelista aveva lo scopo di dimostrare che Gesù era nato da una vergine ed era quindi il Messia promesso proprio dalla profezia di Isaia. Vista la contraddizione esistente nella Nuova Riveduta (chiamiamo le cose col loro nome), si potrebbe accusare Matteo di avere citato erroneamente o peggio faziosamente il brano veterotestamentario per soddisfare ad ogni costo le esigenze della propria narrazione. Quest’ultima supposizione sarebbe persino plausibile se non fosse che la versione greca dell’Antico Testamento, di molto più antica del cristianesimo e del Nuovo Testamento ed approntata in ambienti ebraici traduce così Isaia 7:14: “ἰδοὺ ἡ παρθένος ἐν γαστρὶ ἕξει”, che letteralmente significa: “ecco, la vergine sarà incinta”. Abbiamo quindi chiara prova che Matteo cita Isaia attribuendogli il significato che gli stessi fruitori del testo ebraico originale gli attribuivano.
Non condivido e non capisco la scelta della Nuova Riveduta nella traduzione di Isaia e strizzo l’occhio alla coerenza della Nuova Diodati che mantiene anche nel testo ebraico la parola “vergine”. Perché è ovvio che la chiarificazione offerta dalla LXX (Settanta) e dallo stesso vangelo di Matteo diviene determinante per una corretta interpretazione del testo ebraico.
La realtà dei fatti – ed è ciò che voglio dire con questo studio – è che se l’ebraico ha seminato, il greco ha innaffiato ed il cristianesimo raccolto. La fede nel Dio unico, un tempo patrimonio esclusivo di una sola nazione, anche a motivo della lingua con cui essa veniva tramandata diviene universale.
Il mandato di Gesù
Dal III secolo a.C. la Bibbia ebraica venne tradotta in greco per essere diffusa fra i giudei della dispersione. E’ vero che Giuseppe Flavio racconta che fu il sovrano egiziano a volere la traduzione della Legge mosaica per arricchire con un nuovo testo la biblioteca di Alessandria, ma la successiva traduzione degli altri libri veterotestamentari fu motivata dal fatto che gli ebrei presenti in Egitto avevano ormai bisogno di una traduzione greca per poter leggere il libro che preservava le loro tradizioni religiose e persino, in un certo senso, la loro identità nazionale.
La scelta della lingua greca viene ripresa dagli autori del Nuovo Testamento con l’evidente intento di rendere universale l’annuncio dell’evangelo. Ciò in perfetto accordo con l’insegnamento di Gesù, il quale, come riscontriamo più volte nei vangeli, sottolinea che il suo messaggio non riguarda solo il popolo ebraico, ma ogni individuo che sia pronto ad ascoltarlo.
“Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.” (Matteo 28:19)
E’ questo il grande mandato al quale fanno eco le parole che leggiamo negli Atti degli Apostoli.
“Ma riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all’estremità della terra“. (Atti 1:8)
Giovanni riassume questa chiamata universale dell’evangelo all’inizio del suo vangelo. “È venuto in casa sua e i suoi non l’hanno ricevuto; ma a tutti quelli che l’hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventar figli di Dio: a quelli, cioè, che credono nel suo nome; i quali non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né da volontà d’uomo, ma sono nati da Dio“. (Giovanni 1:11-13)
Ecco che non è più il diritto di sangue, ma la fede in Cristo che fa di noi dei figli di Dio, che ci fa entrare in relazione con Lui.
Nonostante la parole di Gesù e i brani che ho citato, i dubbi sull’apertura ai Gentili, i non ebrei, permangono nella chiesa primitiva ed esistono all’interno della stessa cerchia degli apostoli, come appare evidente nella narrazione che vede coinvolto Pietro e che porterà alla conversione alla casa del centurione Cornelio (da Atti 10 in avanti).
Con Paolo, però, le barriere fra cristiani ebrei e cristiani non ebrei crollano definitivamente. La sua attività missionaria è infatti rivolta prettamente a questa seconda categoria di credenti, come dirà lui stesso: “Parlo a voi, stranieri; in quanto sono apostolo degli stranieri faccio onore al mio ministero.” (Romani 11:13). Tutto il capitolo undici dell’epistola ai Romani è in realtà un toccante discorso dell’apostolo proprio sul senso della chiamata dei Gentili, degli stranieri, e il cambiamento che è conseguito nel rapporto fra Israele ed il suo Dio nazionale, adesso divenuto Dio di ogni uomo che lo invoca.
L’originale del Nuovo Testamento e il Tetragramma
Un passaggio molto importante verso l’universalizzazione del messaggio dell’evangelico è l’aver reso nell’aver reso accessibile anche il Nome veterotestamentario di Dio, il cosiddetto Tetragramma. Escludo subito e senza riserve la possibilità che il Tetragramma fosse, in qualsiasi forma, parte dell’originale greco del Nuovo Testamento – lo si può sostenere, come fanno alcuni, ma non dimostrarlo. E’ vero che degli antichi manoscritti della versione dei LXX (Settanta) hanno il Tetragramma, ma si tratta di copie ad uso del popolo ebraico stesso. (Vedi l’esaustiva trattazione dell’argomento da parte di Albert Pietersma, “Kyrios or Tetragram, A Renewed Quest for the Original LXX”). Prova a mio avviso definitiva, schiacciate e al di sopra di ogni possibile congettura è il fatto che nessun manoscritto del Nuovo Testamento greco ha il Tetragramma – parliamo di migliaia di testimoni (oltre 5000 solo in greco, 8000 in latino e innumerevoli citazioni nei padri della Chiesa), evidenze provenienti da ogni parte della cristianità e riguardanti un periodo storico che va dal II al XVI secolo.
La realtà dei fatti è che la necessità di tradurre il nome personale di Dio (che nell’Antico Testamento rappresenta una così profonda espressione dell’ebraismo da divenire impronunciabile) porta all’utilizzo della parola greca Kyrios, Signore.
Questo passaggio è evidente in un passo molto significativo nelle epistole di Paolo.
” … perché, se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato; infatti con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa confessione per essere salvati. Difatti la Scrittura dice: “Chiunque crede in lui, non sarà deluso”. Poiché non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato.” (Romani 10:9-13)
Se Paolo avesse inserito in questo brano il Tetragramma, avrebbe apertamente contraddetto il senso della sua affermazione, precludendo di fatto l’accesso all’invocazione del Nome di Dio a coloro che non sapevano come pronunciare l’Ha Shem (il Nome) ebraico, יהוה. Egli invece parla di Dio come del Signore, in greco Kyrios, e in questo modo il mondo intero del suo tempo, praticamente tutto di lingua greca, poteva e sapeva come invocare il nome del Signore per essere salvato.
La parte finale di questo verso è la citazione di un brano dell’Antico Testamento (Gioele 2:32) che in ebraico ha il Tetragramma, יהוה
La citazione di Paolo in greco, ricalca il testo della Settanta.
Il testo greco di Gioele 2:32 in possesso di Paolo deve essere stato uguale a quello oggi a nostra disposizione.
Con il Nuovo Testamento il Dio nazionale ebraico, rivelatosi a Mosè come יהוה , diviene il Signore (Kyrios) di ogni uomo che lo invoca.
Vino nuovo in otri nuove
Se da una parte abbiamo una terminologia greca che riprende quella ebraica e la universalizza, dall’altra il nuovo mezzo linguistico nelle mani degli autori sacri li spinge a fare delle affermazioni che non erano parte della lingua e cultura religiosa ebraica – almeno non in maniera esplicita.
Ho dato uno sguardo agli scritti di Filone, il “filosofo” ebreo vissuto ad Alessandria d’Egitto fra il 50 a.C. ed il 50 d.C. La sua dottrina del logos deve essere in qualche modo collegata al pensiero di Paolo. Non credo che sia nulla di cui stupirsi: tutto il Nuovo Testamento mostra riferimenti al pensiero ebraico del tempo in cui è stato scritto – e non solo. Non possiamo pretendere di eradicare l’elemento umano della Parola di Dio e visto che i vari autori sacri hanno vissuto in un determinato contesto intellettuale e culturale, ciò ha ovviamente lasciato una traccia nei loro scritti.
Qualcuno si aspettava altro?
Vorremmo forse che lo stesso Gesù avesse parlato in parabole riferendosi ad impiegati, computer o avesse parlato di automobili ed aerei? Il fatto che la Parola di Dio si sia incarnata, implica che lo abbia fatto in un momento storico ben preciso, nel quale essa è stata annunciata agli uomini, con parole e concetti comprensibili. Sta a noi, uomini evoluti ed attenti del nostro tempo, in possesso di grande intelligenza e mezzi, attualizzare le parole di Gesù e degli apostoli. Forse alcuni si aspettavano il contrario dalle pagine della Bibbia. Ma la realtà è che se Dio ha parlato per mezzo di Gesù nel primo secolo con linguaggio del primo secolo, chi sarebbe venuto dopo, inclusi noi, ha buone speranze di comprendere ciò che egli intendeva dire, attingendo al bagaglio della cultura umana. Ma se avesse parlato allora con il linguaggio del nostro tempo, l’umanità avrebbe dovuto attendere duemila anni prima di comprendere ciò che egli intendeva dire.
La cristologia di Paolo ha diversi tratti in comune con quella di Filone, ma c’è nelle sue parole qualcosa di profondamente diverso, che lo distacca da lui in maniera netta: Paolo crede nell’incarnazione del logos in Gesù di Nazaret. Ciò lo porta ad azzardare una terminologia e gli fa raggiungere conclusioni ben più definite di quelle di Filone, visto che le realtà che il grande filosofo giudeo ha teorizzato, Paolo le ha viste manifestate in un personaggio storico che lui non esita a definire Creatore, Signore, Salvatore, il Cristo promesso fattosi uomo.
L’epistola ai Colossesi introduce nella terminologia biblica un vocabolo molto interessante.
Ovvero, in italiano: “Poiché al Padre piacque di far abitare in lui tutta la pienezza“.
La parola πλήρωμα (pleroma), di solito tradotta “pienezza”, assume qui dei connotati molto specifici, divenendo chiaramente un termine tecnico che riassume quanto lo stesso Paolo spiegherà più avanti nella stessa epistola.
In italiano: “perché in lui abita corporalmente tutta la pienezza della Deità“.
L’apostolo Paolo utilizza un linguaggio sofisticato, attento, preciso, che attinge alla lingua e cultura greca più che a quella ebraica, per spiegare la realtà della pienezza, o addirittura totalità direi, degli attributi della Divinità, o meglio ancora Deità, che risiedono corporalmente nella persona di Cristo.
Un altro significativo attributo che lo stesso Paolo riferisce al Cristo è presente poco prima nella stessa epistola:
In italiano: “Egli, che è splendore della sua gloria e impronta della sua essenza“.
Anche εἰκὼν (immagine) e χαρακτὴρ (impronta) sono parole che esprimono concetti molto profondi e si sono potuti introdurre nel linguaggio della fede cristiana anche grazie alla ricercatezza della lingua greca. Simili aggettivi riferiti al Cristo, al Messia, nel Nuovo Testamento non li troviamo apertamente esposti nell’Antico. E’ vero che il Nuovo Testamento è stato scritto in koiné e non in attico, la forma letteraria e sofisticata del greco; ma ciò non deve far pensare che al momento giusto gli autori sacri non abbiano saputo elevare il livello della ricercatezza dei loro vocaboli per esprimere concetti che lo richiedessero.
La dottrina biblica del logos
Giovanni ha scritto il quarto dei vangeli, che porta il suo nome. Alcune sue affermazioni sono stati determinanti per la cristologia della Chiesa. L’inizio del suo Vangelo è semplicemente meraviglioso, paragonabile per solennità al primo verso della Genesi.
“Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio” (Giovanni 1:1).
Parola, ma anche Verbo, rendono di solito l’originale greco logos. Mi si permetta di utilizzare da qui in avanti quest’ultimo vocabolo e non la sua traduzione.
“In principio era il logos ed il logos era con Dio ed il logos era Dio.”
Ho già espresso altrove e per esteso la mia convinzione che Giovanni faccia riferimento all’interpretazione ebraica dei fatti dell’Antico Testamento e non alla concezione greca del logos – come si potrebbe superficialmente supporre. Lo dimostra anche il fatto che Filone parla di logos da ebreo e Paolo, ebreo per nascita e tradizione religiosa, riprende gli stessi concetti, anche se non utilizza apertamente il vocabolo logos.
Nella sua stupenda opera “De Opificio Mundi”, cioè “La Creazione del Mondo”, Filone parla di “θείῳ λόγῳ” affermazione che C.D. Yonge traduce con “Divine Reason”, ovvero “Ragione Divina”, ma che possiamo anche intendere come “Parola Divina”, sfruttando l’ambivalenza (almeno) della parola greca originale, che può indicare sia la “ragione” sia la “parola”, cioè sia pensiero che linguaggio.
Giovanni, però, va oltre quello che ha ereditato dalla sua cultura ebraica. Infatti egli scrive:
“Θεὸς ἦν ὁ Λόγος”
“Il logos è Dio”
“La Parola è Dio”
Ecco quindi che Giovanni, come Paolo, aggiunge alle conclusioni del “filosofo” ebreo di Alessandria una grande certezza che quegli non poteva avere.
“E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre.” (Giovanni 1:14)
Mi si permetta di espandere il testo di questo brano per cercare di trasmettere quanto a mio avviso esso implica se si legge il testo in greco originale e lo si considera alla luce di tutto il prologo di questo stupendo vangelo: “Il logos si è fatto uomo ed ha dimorato per un po’ di tempo fra noi, incarnando Grazia e Verità, e noi apostoli – me Giovanni compreso – siamo stati spettatori della sua Gloria, Gloria che spetta a Colui che è Figlio Unigenito venuto dal Padre”.
Già l’Antico Testamento aveva spinto i commentatori ebraici a parlare delle manifestazioni di Dio avvenute attraverso la sua “Parola”, ovvero in aramaico “Memra”, in ebraico “Davar”. Con l’uso del termine logos il Nuovo Testamento si propone latore di un messaggio universale, con una terminologia che ha senso, allo stesso tempo, sia per la cultura ebraica sia per quella greca. Nei secoli a venire i padri della Chiesa utilizzeranno il concetto di logos per spiegare alla mentalità greca il senso dell’incarnazione del Figlio di Dio, mentre, visto proprio l’esteso riferimento cristiano, la speculazione ebraica lascerà cadere l’argomento.
Apocalisse 1:8
L’ultimo esempio che citerò a favore della mia discussione si trova nel libro dell’Apocalisse:
La traduzione: “Io sono l’alfa e l’omega“, dice il Signore Dio, “colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente“.
Giovanni prende in prestito la parola παντοκράτωρ, “pantokrator” dalla LXX (Settanta). Questa versione traduce infatti l’ebraico “יהוה צבאות” (Adonai Sebaoth) in Nahum 2:13, con “Kyrios Pantokrator” (in alfabeto greco “κύριος παντοκράτωρ”), letteralmente “Signore Onnipotente”. Perché questa scelta?
Come afferma Orsolina Montevecchi, a pag. 39 del suo “Bibbia e papiri, Luce dai papiri sulla Bibbia greca”, Pantokrator “(che pure è stato usato per tradurre Sebaoth anche nei libri più antichi) interpreta l’espressione nel significato più universale: non nel significato originario di <<Dio degli eserciti (di Israele)>>, che dà al suo popolo la vittoria sui nemici, bensì nel senso di <<Dio dominatore di tutte le potenze terrestri e celesti.>> […] l’evoluzione di significato dell’espressione ebraica Sebaoth ha la sua continuazione nella parola greca, che fu scelta per tradurlo (o addirittura coniata a questo scopo) …”
Le affermazioni di questa importante e competente studiosa confermano il senso della nostra discussione.
Sulle parole di Giovanni in Apocalisse occorre evidenziare ancora dei dettagli importanti.
Quando Giovanni si riferisce a Dio come “colui che è, che era e che viene”, altro non fa che esprimere in termini universali il Nome ebraico di Dio, utilizzando la stessa logica che ha portato alla nascita ed uso di “pantokrator“. L’apostolo conosce ovviamente il Tetragramma, YHVH (יהוה), ma invece di proporlo nella forma originale, preferisce trasmettere in questo modo il significato al lettore di lingua greca. Magari non tutte le sfaccettature dell’ ha Shem ma almeno una, quella che sottolinea l’eternità di Dio.
Le quattro consonanti ebraiche del nome divino vengono vocalizzate nel testo Masoretico.
In proposito Asher Intrater, ebreo messianico, dice qualcosa che può spiegare il perché del riferimento di Giovanni al concetto di eternità implicito nel Tetragramma. Egli scrive: “Aggiungendo le vocali “e”, “o”, “a” alle consonanti YHVH, si ottiene il nome YeHoVaH. In questa struttura verbale, la “e” (sh’va) indica il tempo versale futuro, la “o” (holom) il presente e la “a” (patach) il passato, dando al nome YeHoVaH il significato di “Egli sarà, Egli è, Egli era”: in altre parole, l’Eterno”. Asher Intrater, “Chi ha pranzato con Abrahamo?”, edizioni Perciballi, novembre 2012, p. 162.
L’ovvia naturale deduzione è che con l’espressione “colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente” Giovanni stia letteralmente traducendo ed universalizzando l’espressione ebraica “יהוה צבאות” (Adonai Sebaoth).
Conclusioni
Sono stati gli apostoli per primi, in obbedienza al mandato di Cristo e con la guida dello Spirito Santo, ad aprire la via per la salvezza anche ai non israeliti. Essi l’hanno fatto parlando delle meraviglie di Dio raccogliendo quanto più possibile della fede ebraica ma presentandola con parole ed idee (greche) che risultassero comprensibili all’uomo del loro tempo.
Quando Paolo si trovò in Atene dovette confrontarsi con chi lo interrogava sulla sua fede. Egli lo fece sfruttando l’occasione porta dalla religiosità del luogo, parlando del Dio che lui serviva, come del “dio sconosciuto” al quale i greci avevano dedicato un altare.
Queste le accorate parole di Paolo: “E Paolo, stando in piedi in mezzo all’Areòpago, disse: “Ateniesi, vedo che sotto ogni aspetto siete estremamente religiosi. Poiché, passando, e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato anche un altare sul quale era scritto: Al dio sconosciuto. Orbene, ciò che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo…” (Atti 17:22-24)
Il Dio di Mosè, ricordato da Israele come Colui che aveva fatto uscire il popolo dall’Egitto, venne annunciato ai Gentili come il Dio Onnipotente, creatore del cielo e della terra, che aveva mandato il suo Unigenito Figlio sulla terra per la salvezza dell’intera umanità, di chiunque avrebbe sperato e creduto in lui.
Con in mente quanto abbiamo discusso possiamo certamente guardare indietro con sguardo meravigliato alle radici ebraiche della nostra fede, ma dobbiamo andare avanti, traducendo l’evangelo nella lingua parlata dalla gente, attualizzandolo perché lo si possa comprendere e non solo contemplare meravigliati. La nostra eredità ebraica affascina e impone rispetto. Fermarsi ad essa, però, non è in armonia con la prassi apostolica che promuoveva su tutto l’accessibilità e l’universalità che distinguono fondamentalmente la fede cristiana da quella ebraica. I seguaci di Gesù partono dalla fede giudaica; non la rinnegano, ma in ossequio alla volontà del loro Signore annunciano il messaggio della salvezza in Gesù, Cristo e Signore a tutta l’umanità.
La traduzione in greco degli elementi della cultura religiosa ebraica – non solo della lingua – porta con se un grande messaggio: non contano in se e per se le parole, ma quello che le parole rappresentano. Ha shem, il Nome, יהוה, non è sacro in se, ma perché lo è Dio che così si fa chiamare. Se יהוה non è più pronunciabile e il concetto che vuole richiamare è troppo estraneo ai destinatari dell’evangelo, Kyrios non diviene meno sacro se sacro è il Dio al quale ci rivolgiamo così. Se nell’Antico Testamento Dio è יהוה che aveva fatto uscire il popolo dall’Egitto, nel Nuovo Egli è il Padre del Signore nostro Gesù Cristo.
Dio benedica la Sua Parola nei nostri cuori, qualunque sia la nostra lingua.
“Gesù rispose loro: non io eletto voi dodici? Eppure uno di voi è il diavolo.” (versione mia)
Una traduzione di questo genere è piuttosto “forte” e comporta delle ovvie difficoltà esegetiche, ma si tratta della versione che rispetta le regole grammaticali del greco. E’ la conoscenza della lingua originale a doverci guidare nella ricerca del senso di un testo e della sua traduzione, non l’esegesi, che è invece il passo successivo: accertato un testo e la corretta traduzione allora si procede all’interpretazione.
Le varie versioni italiane interpretano così questo brano:
“Gesù rispose loro: “Non ho io scelto voi dodici? Eppure, uno di voi è un diavolo!” (Nuova Riveduta, CEI, Nuova Diodati)
La Traduzione del Nuovo Mondo che parafrasa così (non possiamo sostenere certo che traduca): “Gesù rispose loro: “io ho scelto voi dodici, non è vero? Eppure uno di voi è un calunniatore.”
La Diodati (1649) rende così il brano: “Gesù rispose loro: Non ho io eletti voi dodici? E pure uno di voi è diavolo”.
La parola “diavolo” è un nome monadico, cioè non ha bisogno dell’articolo determinativo per riferirsi ad un singolo, specifico soggetto. Sebbene, quindi, in questo caso non vi sia l’articolo (determinativo) davanti la parola greca διάβολός questa non si può intendere come indefinita o peggio qualitativa. Non si parla cioè in questo brano di “un diavolo” perché non vi sono più “diavoli”. Esistono più demoni, ma il nome greco di Satana è Diavolo; entrambi i nomi sono propri dello stesso individuo e non di una categoria.
In Luca 21:25 rinveniamo una casistica simile, stavolta non turbata da perplessità esegetiche:
“Καὶ ἔσται σημεῖα ἐν ἡλίῳ καὶ σελήνῃ …”
Sebbene non vi sia l’articolo davanti le parole “sole” e “luna”, è così che viene tradotto il brano:
“Vi saranno segni nel sole, nella luna …” (Nuova Riveduta, CEI, Nuova Diodati, Diodati, Traduzione del Nuovo Mondo).
Le traduzioni aggiungono con grande serenità – ed a ragione – l’articolo determinativo davanti la parola “sole” e “luna” sebbene non vi sia l’articolo in greco, perché è ovvio non vi è un altro “sole”, né un’altra “luna”.
Cosa dire dei problemi di esegesi del testo? Non li possiamo di certo risolvere aggirando la realtà oggettiva del testo che abbiamo davanti. Del resto non ci troviamo davanti ad una difficoltà più grande di quella che si presenta in altri brani simili. Ad esempio in Marco Gesù chiama Pietro “Satana” e non “un satana”: “Ma Gesù si voltò e, guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro dicendo: “Vattene via da me, Satana! Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini.” (Marco 8:33 – Nuova Riveduta)
Concludendo, in Giovanni 6:70 Gesù non si riferisce a Giuda come ad “un diavolo”, bensì come al “Diavolo”. Fondamentalmente quasi nulle le implicazioni per la sostanza della storicità dei fatti descritti, ma valeva la pena osservare un dettaglio tanto interessante dal punta di vista linguistico.
Osservazioni grammaticali tratte da “Greek Grammar Beyond the Basics” di Daniel B. Wallace.
Come pronunciare il greco del Nuovo Testamento? Vi sono diversi modi diffusi negli ambiti scolastici e scientifici. Vanno fondamentalmente tutti bene, visto che parliamo di una lingua – quella del Nuovo Testamento – della quale ignoriamo la corretta pronuncia. Allo stesso tempo, però, il greco koinè ha un discendente vivo e vegeto, il greco moderno. Esaminiamo da vicino questa interessante problematica.
Cos’è la scrittura?
La scrittura è la rappresentazione grafica del linguaggio umano.
Nel corso della storia e nelle varie aree geografiche, tale fenomeno ha conosciuto le più diverse espressioni. Noi occidentali siamo abituati all’uso dell’alfabeto e, per naturale inclinazione umana, lo consideriamo la forma di scrittura migliore e più avanzata. Chi scrive si permette di prendere le distanze da questo luogo comune. L’alfabeto che noi conosciamo è certamente molto versatile, ma vi sono altre forme di scrittura altrettanto efficaci ed altre esteticamente molto più attraenti. La bellezza è un dettaglio importante dell’esperienza umana in genere e mi chiedo se anche nella scrittura sia lecito che ceda il passo alla funzionalità. Non è forse per questo che esistono tanti “font” nei nostri computer – proprio a riprova della ricerca della soddisfazione del senso del gusto, del bello, innato nella nostra natura?
La bellezza della scrittura classica egiziana è indiscutibile. Ciò spiega almeno in parte perché rimase utilizzata per millenni dal popolo che l’aveva concepita proprio all’alba della sua storia. I geroglifici hanno oscurato nell’immaginario comune sull’antico Egitto le altre forme molto più pratiche di scrittura utilizzate degli egiziani, quali lo ieratico e demotico.
Difficile non farsi incantare dalla bellezza della scrittura giapponese e da quella cinese. Proprio i popoli cinese e giapponese sfatano un altro luogo comune: la scrittura utilizzata non determina o indica il progresso tecnologico e sociale dei popoli.
Qui sopra un esempio di scrittura giapponese.
Il nostro alfabeto arriva a noi dopo lunghe peripezie durate millenni.
La prima forma di alfabeto nasce quasi 4000 anni fa in Egitto. L’egiziano ha dei segni ai quali veniva attribuita valenza fonetica consonantica. Fu con questo stratagemma che gli egiziani poterono scrivere parole e nomi che non appartenevano alla propria lingua. Qui di seguito il modo in cui veniva scritto il nome della regina Cleopatra appartenente alla dinastia greca dei Tolomei.
L’ebraico viene scritto con un alfabeto composto da 22 consonanti, mancando sostanzialmente delle vocali. Anche l’alfabeto aramaico che dall’anno 1000 a.C. in avanti incominciò ad essere diffuso in tutto il medio-oriente insieme alla lingua che lo aveva adottato, mancava delle vocali. Il risultato dell’incontro della cultura ebraica con la scrittura aramaica durante l’esilio babilonese (607-537 a.C.) ha dato luogo alla forma di alfabeto ebraico che ci è familiare e che è tutt’oggi in uso nello stato di Israele.
Nessuna forma di scrittura conosciuta, per quanto sofisticata o pratica possa essere, può rappresentare e tramandare in maniera univoca il suono di una o più parole.
Noi italiani siamo abbastanza fortunati: siamo un’eccezione alla regola e la nostra lingua si pronuncia sostanzialmente come si scrive. E’ però anche vero che per poterla leggere correttamente è comunque indispensabile l’ausilio della voce umana. Se si perdesse traccia della nostra civiltà, un archeologo del 10.000 d.C. non avrebbe maggiore vantaggio dal ritrovamento di incisioni nel nostro alfabeto di quanto non ne abbiamo avuto dal ritrovamento di scritte in egiziano antico!
Senza nessuno che tramandi la lettura corretta delle parole, anche se rappresentate col nostro alfabeto, queste diventano solo disegni incomprensibili.
Merita menzione il dramma (che gli italiani viviamo quotidianamente) dell’impatto con la lingua inglese, diffusissima ma oggettivamente complessa per la maniera in cui l’alfabeto ne rappresenta graficamente il suono. Parole come “stand up” o l’espressione “cool” o “I like” non potranno essere lette in maniera corretta da un italiano o da un tedesco se non dopo averne sentito la pronuncia da chi conosce la lingua inglese.
Come leggere il greco antico?
Gli scritti di Shakespeare vengono oggi letti o recitati nell’unico accento che conosciamo della lingua inglese.
L’Antico Testamento in ebraico viene letto con la pronuncia corrente di quella lingua. Quanto questa possa essere vicina a quella dell’ebraico parlato da Mosè, Davide o Geremia non ci è dato saperlo.
Per chiudere questa nostra lunga discussione, quindi, alla luce delle tante premesse che ho fatto, ritengo doveroso utilizzare la pronuncia del greco moderno anche nella lettura del greco antico.
Non conosciamo la pronuncia originale del greco di Omero o di quello del Nuovo Testamento e non la conosceremo mai. Ma sappiamo come oggi vengono lette le parole dagli eredi diretti di quel linguaggio e non vi è maniera più rispettosa di pronunciare le parole che incontriamo scritte in quella forma di alfabeto se non quella di chi lo considera a buon diritto parte inscindibile del proprio patrimonio culturale.
Una serie di video su youtube propongono la pronuncia moderna per il greco del Nuovo Testamento. Comprendo che ciò possa essere più impegnativo del metodo utilizzato nelle varie scuole, ma sono convinto che valga davvero la pena completare lo studio di questa stupenda lingua leggendola con l’unica pronuncia davvero greca che ne conosciamo.
Guarda questo video dove si legge l’inizio del vangelo di Matteo in greco con pronuncia del greco moderno.