Introduzione al Vangelo di Matteo

Introduzione al vangelo di Matteo di Giuseppe Guarino

Ogni volta che rileggo il vangelo di Matteo percepisco il senso della sua presenza fra i libri del Nuovo Testamento e persino il fatto che l’uso ormai consolidato della Chiesa l’abbia voluto come primo dei libri del nuovo patto. Si tratta infatti d’un’opera stupenda, sulla quale è evidente il sigillo dello Spirito Santo. Mi ha particolarmente affascinato l’incredibile onnipresente unità d’intento dello scritto e questo ho cercato di trasmettere al lettore nello schema del vangelo che propongo più avanti.

Il mio commento l’ho confinato a delle note, che non possono né vogliono sostituirsi al testo, bensì facilitarne la lettura. È per questo che saranno ridotte al minimo indispensabile e il tutto sarà inteso con l’unisco scopo di aiutare il lettore a percepire la grandezza dell’intento narrativo di questo stupendo vangelo.

Perché Matteo?

Quello che (tra virgolette) è un “mistero” è perché lo Spirito Santo abbia scelto figure minori come oggettivamente sono state Matteo, Marco o Luca per la composizione delle prime narrazioni ufficiali della cristianità e non apostoli come Pietro o Giacomo. Questo paradosso, se così possiamo chiamarlo, venne percepito dalle sette eretiche dei primi secoli che si diedero da fare per produrre e diffondere falsi vangeli curandosi di attribuirli a personaggi di spicco, fra i discepoli quali Pietro o Tommaso, Giacomo, ecc. È, quindi, di particolare rilevanza il fatto che il vangelo di Matteo, sebbene in realtà anonimo, sia stato  universalmente e già dalle origini attribuito a quell’apostolo e sia riuscito ad essere scelto unanimemente come ispirato ed autentico.

Eusebio, vescovo di Cesarea vissuto nel IV secolo, è autore di una importante “Storia ecclesiastica”. Nel suo lavoro consegna alle future generazioni quella che molto probabilmente era l’idea della Chiesa del suo tempo sul primo vangelo.

“… e di tutti i discepoli, Matteo e Giovanni sono gli unici che ci hanno lasciato un resoconto scritto, e anche loro, come ci dice la tradizione, hanno intrapreso questo lavoro per necessità. Matteo avendo già proclamato l’evangelo in ebraico, quando stava per recarsi anche in altre nazioni, scrisse nella sua lingua natia, supplendo alla mancanza della propria presenza fra loro, per mezzo dei suoi scritti”.

L’idea che Matteo possa avere composto il suo vangelo in un originale ebraico in seguito tradotto in greco ed in questa lingua soltanto giunto a noi, è piuttosto antica. Quanto abbia di vero questa opinione non è facile dirlo. È molto difficile – per non dire impossibile – cercare di supporre l’esistenza di un documento in una lingua esaminandolo in un’altra.

Sono dell’avviso che il vangelo di Matteo sia stato originariamente composto in greco, la lingua nella quale c’è arrivato.

Jean Carmignac ha scritto un libro interessantissimo “La nascita dei vangeli sinottici”. La sua teoria sull’origine ebraica di Marco è fondata e ben proposta. Leggendo il suo lavoro mi sono convinto che il forte sostrato ebraico dei vangeli sia dovuto a dei documenti originali scritti appunto in lingua ebraica (meno verosimilmente aramaica) ai quali – Luca dice apertamente di averlo fatto nel prologo del suo vangelo – gli evangelisti devono avere attinto come fonti per la loro narrazione.

Per me è naturale che gli apostoli e i discepoli trascrivessero i detti di Gesù o altri eventi principali del suo ministero, che mi sembra di dire una cosa persino troppo ovvia. Che questi documenti siano stati custoditi dalla prima cerchia dei cristiani è inevitabile conseguenza. Che Matteo, Marco e Luca li abbiano utilizzati per il loro lavoro deve essere stato naturale. Ciò spiega sia le similitudini nelle loro narrazioni, sia le piccole differenze, dovute ad una diversa lettura o traduzione in greco di medesimi documenti, oltre ad elementi aggiunti dal contatto diretto con gli apostoli o il contatto con altre fonti indipendenti. Ciò spiega le divergenze dei vari evangelisti, se vengono intese come peculiarità narrative fondamentali per dare un’impronta che distingueva – e, in un certo senso, quindi, motivava – il proprio scritto, con un intento narrativo che, come un filo conduttore, legava quelle fonti indipendenti.

Allo stato attuale, da un’analisi del testo in nostro possesso, dalle evidenze manoscritte che sopravvivono dall’antichità a testimoniare l’esistenza e la diffusione di questo vangelo, non abbiamo un motivo concreto per dubitare che il vangelo di Matteo sia stato scritto dall’apostolo al quale viene tradizionalmente ed unanimemente ascritto da ormai due millenni e che la lingua originale di composizione di questo scritto sia la stessa nella quale è giunto sino a noi, il greco.

Chi ha studiato la trasmissione del testo del Nuovo Testamento, il suo percorso in copie manoscritte fino all’invenzione della stampa, sa che la Bibbia è il libro meglio attestato dell’antichità, per numero, qualità ed antichità dei manoscritti che testimoniano la sua esistenza e diffusione.

Per quanto riguarda il vangelo di Matteo, Carsten Peter Thiede ha avanzato l’ipotesi che il frammento di questo vangelo chiamato P64, il cosiddetto Papiro Magdalen, custodito appunto al Magdalen College di Oxford, risalga a prima del 70 d.C. Perché ciò potrebbe essere importante? Perché avremmo una prova oggettiva – offerta dalla papirologia, una scienza sufficientemente al di sopra delle parti da garantire un ottimo livello di oggettività – che la datazione di questo vangelo ad un’età più prossima agli eventi, concezione da sempre sostenuta nella tradizione cristiana, è tutt’altro che inverosimile. Scrivo questo perché alcuni che studiano le Sacre Scritture potrebbero imbattersi in testi che propongono una datazione tarda sia i vangeli che per gli altri scritti del Nuovo Testamento – una posizione oggi meno sostenibile che in passato.

Parlando della datazione di tutto il Nuovo Testamento in generale, scrive così Thiede: “Si è dato per scontato che, se il Vangelo secondo Marco (al quale di solito viene attribuita la preminenza fra i sinottici) fosse stato composto approssimativamente verso il 70 d.C., il Vangelo secondo Matteo sarebbe stato scritto intorno all’anno 80 d.C. Schadewalt (filologo classico contemporaneo) riconosce che “questo errore nella storia della tradizione – come egli la definisce – era piuttosto frequente negli studi classici, finché i filologi, diversamente dagli studiosi del Nuovo Testamento, non migliorarono le loro conoscenze”. Testimone oculare di Gesù, Piemme, I edizione, 1996, pag. 37.

Insomma, non solo non vi sono motivi per non credere che gli apostoli ed il loro seguito abbiano dato vita alle pagine del Nuovo Testamento, ma è addirittura saggio crederlo anche da un punto di vista scientifico, alla luce di nuovi recenti risvolti negli studi di papirologia e filologia.

 

Perché un altro studio su Matteo?

Perché voglio comunicare al lettore la struttura narrativa che ho percepito nelle varie letture che ho dedicato a questo meraviglioso libro.

Prego il Signore di benedire questo mio studio e coloro che si impegnano per comprendere la Sua Parola.

 

 

 




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