Ho provato a suonare il tavolo della mia cucina come faccio con la mia chitarra, ma non mi è riuscito. Quindi ho provato a fare il giocoliere con le sedie. Ma anche questo non mi è riuscito. Volevo utilizzare la macchina del caffè per andare a fare un giro con la mia famiglia, ma sono rimasto deluso dall’incapacità della mia macchina del caffè.
Poi ho realizzato: ogni cosa è stata concepita per uno scopo ben preciso e utilizzarla diversamente significa renderla inutile.
Quindi ho utilizzato il tavolo della cucina per mangiare e l’ho trovato bello ed utile.
Ho usato le sedie per sedermi attorno al tavolo con i miei cari e ho capito che se ero quasi lì lì per buttarle via era perché le stavo utilizzando per uno scopo sbagliato, che non era il loro, quello per il quale sono state costruite.
Ho utilizzato la macchina del caffè proprio per farmi un buon caffè. E mi sono ricordato perché l’avevo comprata.
La storia scritta qui sopra è immaginaria, ma è vero che anche per l’uomo non trovare lo scopo per il quale si è stati creati, genera frustrazione e un inspiegabile senso di vuoto.
Nel libro della Genesi, Dio crea l’uomo ed ha comunione con lui. Il peccato non è ancora entrato nella storia dell’uomo. Eppure manca qualcosa.
“Poi Dio il SIGNORE disse: “Non è bene che l’uomo sia solo…” (Genesi 2:18)
Quando l’uomo vede per la prima volta la donna, nasce l’amore e la poesia:
“Dio il SIGNORE, con la costola che aveva tolta all’uomo, formò una donna e la condusse all’uomo. L’uomo disse:
Questa, finalmente, è ossa delle mie ossa
e carne della mia carne”.
(Genesi 2:22-23)
Siamo stati creati per amare, dare e condividere. Ciò avviene nel nostro vivere sociale, nel relazionarci con gli altri. Per questo l’uomo non poteva stare solo: sarebbe stato incompleto, avrebbe solo ricevuto ma non avrebbe avuto nessuno cui dare, con cui condividere.
Gesù ribadì nei suoi insegnamenti un comandamento in particolare:
“Ama il tuo prossimo come te stesso”. (Matteo 22.39)
Il comandamento di Dio non è dato senza un motivo, ha un senso. Ci orienta. Ci fa comprendere qual è il nostro scopo, a cosa serviamo, cosa dobbiamo fare per sentirci realizzati. Amare è una di queste cose.
Lo stesso concetto espresso nel comandamento veterotestamentario, Gesù lo riprende e lo sublima in maniera unica, nuova, senza precedenti:
“Io vi do un nuovo comandamento: che vi amiate gli uni gli altri. Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri”. (Giovanni 13:34)
Bisogna amare quindi il prossimo come noi stessi, ed i nostri fratelli in Cristo con lo stesso amore che il Signore ha avuto per noi. Visto che ciò non è oggettivamente facile, vale la pena sottolineare quanto sia grande la soddisfazione personale quando riusciamo ad adempiere a questo specifico comandamento datoci dal Signore.
È ancora Gesù che nello stesso quarto Vangelo ha detto:
“Chi crede in me, come ha detto la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno”. (Giovanni 7:38)
Non capivo questa frase finché un uomo di Dio un giorno non spiegò in chiesa un dettaglio che riguardava il Mar Morto. Il Mar Morto non è un mare appunto morto perché non riceve acqua. La riceve infatti. È morto perché non dà. Ed anche peggio, si svuota perché la sua acqua evapora: cioè va sprecata.
Lo stesso è vero per il cristiano.
Se sta seduto in chiesa, ascolta la parola di Dio, ma non la condivide, non trasmette ciò che ha ricevuto, bensì la trattiene solo per sé, quello che ha imparato andrà sprecato. Il suo comportamento, inoltre, avendo contristato lo Spirito Santo, gli impedirà di sentirsi un credente realizzato. Lo avete mai provato? Vi siete mai sentiti male perché la vostra pigrizia o la vergogna non vi hanno fatto condividere le cose belle che sapete della Parola di Dio?
Anche mettendo da parte la spiritualità, esiste nell’uomo il desiderio di condividere quanto di bello vi è nella sua vita.
I nonni parlano sempre dei nipotini. I ricchi ostentano i soldi. I musicisti parlano solo di musica. I collezionisti menzionano sempre i loro pezzi rari. Noi cristiani invece reprimiamo il nostro entusiasmo e non parliamo delle meraviglie di Dio, ma non è quello che ci insegna la Parola di Dio, né la guida dello Spirito Santo. Se noi stessi siamo credenti, è proprio perché qualcuno ci ha parlato dell’amore di Dio – ed anche a questo si riferiscono le parole di Gesù quando parla dell’acqua viva che sgorga dal ventre del credente.
“… quel che abbiamo visto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché voi pure siate in comunione con noi; e la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo”. (1 Giovanni 1:3)
Gli apostoli non hanno tenuto per sé il messaggio della salvezza, ma lo hanno condiviso. Se avessero taciuto, per egoismo, per pigrizia o per paura delle conseguenze della loro testimonianza, oggi noi non saremmo qui.
Dare è un altro importante aspetto del modo in cui l’uomo realizza se stesso.
Il Signore Gesù stesso è esempio di come dare.
“… appunto come il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti”. (Matteo 20:28)
Gesù disse ancora:
“Vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (Atti 20:35)
Il peccato si frappone fra noi e la libera realizzazione ed estrinsecazione di ciò che di bello la nostra natura umana originaria, prima della caduta, possedeva. Oggi, grazie allo Spirito di Dio, possiamo recuperare la possibilità di fare ciò che è giusto e sperimentare quella soddisfazione che solo realizzare lo scopo per cui sei stato creato ti può dare.
Adão coabitou com Eva, sua mulher. A qual concebeu e deu a luz a Caim e disse: ” Adquiri um varão com a ajuda do Senhor. Depois deu a luz a Abel seu irmão. Abel foi pastor de ovelhas e Caim lavrador. Aconteceu que no fim de uns tempos, Caim do fruto da terra fez uma oferta ao Senhor.
Abel por sua vez, trouxe das primícias do seu rebanho e da gordura deste. Agradou- se o Senhor de Abel e sua oferta, mas não se agradou de Caim e de sua oferta. Caim irou-se sobremaneira e decaiu-lhe o semblante.
O Senhor disse a Caim: ” Porquê estas irritado? E porque decaiu- lhe o semblante. Se procederes mal, o pecado jaz a porta, e o desejo será contra ti; mas tu domina-lo!
Um dia Caim falava com seu irmão Abel estando no campo. Caim se levantou contra Abel, seu irmão, e o matou.
O Senhor disse a Caim: ” Onde está Abel, seu irmão? Ele respondeu: ” Não sei, a caso, sou o tutor de meu irmão?
O Senhor disse: ” Que fizestes? A voz do sangue do seu irmão grita a mim da terra”.
Está passagem é uma das mais tristes da Bíblia. Me pergunto: ” Como pode ser assim sintético? “. Me respondo da seguinte maneira: porquê não bastariam livros e livros para analisar aquilo que sucede aqui, mas o Espírito Santo que nos ensina à luz de toda a Escritura, conseguimos compreender quanto essa narração seja profunda e cheia de significado. ” Espero que essa explicação seja boa também para vocês.
Caim e Abel eram irmãos. Nasceram dos mesmos pais e cresceram na mesma casa, então é razoável pensar que cresceram do mesmo modo. E ainda assim Caim pegou um caminho e Abel outro.
A um certo ponto Caim, agricultor, faz uma maravilhosa oferta a Deus; perfumada, colorida, de frutas estupendas produtos da terra..
Abel faz uma outra, sangüinária e cruenta, com sangue de animal e gordura.
E mesmo assim Deus se agrada do sacrifício de Abel.
Imaginem a incredulidade e raiva de Caim, uma raiva que o levara ao extremo de matar o seu irmão.
Porquê o sacrifício de Abel foi aceito e o de Caim não?
” Por fé Abel ofereceu a Deus um sacrifício mais excelente do que Caim; pelo qual obteve testemunho de ser justo tendo a aprovação de Deus quanto às suas ofertas. Por meio dela, também mesmo depois de morto, ainda fala. (Hebreus 11:4)
Foi a fé a fazer a diferença
Qualquer um com a sua própria inteligência teria dito que uma oferta di frutas seria mais agradável que uma feita com a morte e derramamento de sangue animal. Caim deve ter se sentido orgulhoso, certo de haver feito melhor oferta do que aquela do seu irmão. E não se perguntou nem menos porquê Deus não aceitou a sua oferta quando Deus mesmo interrogou e o incitou a fazer o bem. Não procurou reparar , de andar do seu irmão e procurar de trocar algumas frutas por animais para oferecer correndo uma oferta agradável a Deus. Quem sabe o seu orgulho o dominava. Faltou a fé.
A fé se entranha na obediência. A obediência conduz a bênção pessoal e de quem te está próximo. E só graças a obediência Deus poderá mostrar o seu poder Poder e a sua Glória. De fato, graças a obediência de Abel encontramos já nas primeiras páginas da Palavra de Deus, inspirada pelo Espírito Santo, o anúncio profético do sacrifício de Jesus que veio milênios depois, para a nossa salvação.
O comportamento de Caim nos fala da expressão de uma religiosidade pessoal que tanto caracteriza àqueles que crêem a seu próprio modo. Caim quer oferecer a Deus aquilo que ele acha justo e quando Deus fala com ele (Genesis 4: 6-7) não procura nem mesmo a entender aonde errou. É como se ele quisesse a todo custo, por orgulho ou por falta de fé, como deduzimos da passagem de Hebreus citado, fazer prevalecer o seu modo de crer e fazer “religião”.
Caim e Abel eram irmãos mas o destino deles foram totalmente opostos. Hoje muita gente se sente presa ao interno da própria sorte, ditada dos fatores externos determinantes. Mas não é assim. Caim e Abel haviam vividos na mesma casa, nas mesmas condições. Como eles então nós somos seres humanos pensantes e com uma espiritualidade.
E quando a Palavra de Deus nos vem anunciada o nosso espirito exalta porque conhece a voz do seu Criador e Deus. Está a nós, com a nossa liberdade e consciente escolha, responder a sua chamada ou não.
Tende cuidado, não recuseis ao que fala…
“( Hebreus 12:25) é o advertimento da Bíblia para cada homem…é também para você que está lendo estas palavras. Possa Deus guiar- te na escolha justa e abraçar o Seu amor em Cristo para a tua salvação.
“In quel tempo nacque Mosè, che era bello agli occhi di Dio; egli fu nutrito per tre mesi in casa di suo padre; e, quando fu abbandonato, la figlia del faraone lo raccolse e lo allevò come figlio. Mosè fu istruito in tutta la sapienza degli Egiziani e divenne potente in parole e opere”. (Atti 7:20-22)
La millenaria cultura egiziana e la fede del Dio unico si incontrano in Mosè, cresciuto all’ombra delle più nobili culture del tempo, uomo che Dio userà per dare al suo popolo la Legge.
Il film che più mi piaceva guardare con mio figlio maggiore era “Il Principe d’Egitto” della Disney. Ma più ne riporto alla mente i dettagli più mi rendo conto di quanto si discosti dalla realtà biblica e storica dei fatti. Ciò non ne diminuisce la bellezza, perché ogni narrazione intesa ad intrattenere deve poter lasciare un margine di manovra a chi la gestisce, perché l’intrattenimento è appunto il suo scopo.
Allo stesso modo i miei ricordi di quanto ho appreso sui banchi di scuola su Mosè, l’Esodo e persino la storia dell’antico Egitto assume oggi connotati così deludenti, deprimenti quasi, da avermi spinto da un bel po’ a mettere da parte le nozioni scolastiche per uno studio decisamente più soddisfacente.
Quanto leggerete nelle righe a seguire sono le mie conclusioni sulla figura di Mosè alla luce delle mie conoscenze innanzi tutto bibliche, ma anche storiche.
Do subito per scontata la realtà storica della persona di Mosè.
Premetto questa cosa non perché io dia alcun peso o persino creda si possa dare alcun peso alle affermazioni di chi nega l’esistenza di un uomo chiamato Mosè dietro la Torah ebraica, ma perché anche la più assurda teoria può trovare da qualche parte qualcuno che la enunci e qualcuno che la sostenga.
Se è vero che non vi sono evidenze extra bibliche a sostegno dell’esistenza di Mosè, è anche vero che è soltanto questo l’argomento che si può muovere contro il dato biblico. Un argomento basato sul silenzio e tra l’altro sul silenzio di un popolo su una sua amara sconfitta ha valore pressoché nullo, come il buon senso ed anche una certa conoscenza della storia antica ci impongono.
Ma se è vero che vi è chi nega l’olocausto – documentato come pochi eventi storici – non riesco certo a stupirmi se qualcuno nega la realtà storica di qualsiasi altro evento.
Il popolo di Dio, i discendenti di Giacobbe, entrarono in Egitto grazie all’intervento provvidenziale di Giuseppe, figlio di Giacobbe e visir2del faraone, durante un periodo di carestia che interessò l’Egitto stesso ed il medio – oriente che rocambolesche vicende, all’ingresso dei patriarchi in Egitto.
Il libro della Genesi si conclude con questo evento.
L’Esodo, il libro che segue, comincia invece evidenziando il cambio della condizione del popolo di Dio ormai stabilmente presente in Egitto, dovuto ad un avvicendamento sfavorevole nelle forze al potere in quella terra. Probabilmente quando la Bibbia ci dice che “sorse sopra l’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe”. (Esodo 1:8), dobbiamo intenderlo come un avvicendamento dinastico al potere in Egitto.
Saranno le circostanze che seguono, proprio l’ostilità verso Israele, a gettare le basi per la futura gloriosa liberazione di quel popolo. Mosè, infatti, fu per scampare agli intenti omicidi del re egiziano che finì per essere adottato dalla figlia del Faraone stesso.
Leggiamo dalla Scrittura stessa cosa accadde.
“La figlia del faraone scese al Fiume per fare il bagno, e le sue ancelle passeggiavano lungo la riva del Fiume. Vide il canestro nel canneto e mandò la sua cameriera a prenderlo. Lo aprì e vide il bambino: ed ecco, il piccino piangeva; ne ebbe compassione e disse: “Questo è uno dei figli degli Ebrei”. Allora la sorella del bambino disse alla figlia del faraone: “Devo andare a chiamarti una balia tra le donne ebree che allatti questo bambino?” La figlia del faraone le rispose: bambino. “Va'”. E la fanciulla andò a chiamare la madre del bambino. La figlia del faraone le disse: “Porta con te questo bambino, allattalo e io ti darò un salario”. Quella donna prese il bambino e lo allattò. Quando il bambino fu cresciuto, lo portò dalla figlia del faraone; egli fu per lei come un figlio ed ella dalle acque”. lo chiamò Mosè; “perché”, disse: “io l’ho tirato fuori
La narrazione biblica è in perfetta armonia con quanto sappiamo da altre fonti storiche: “… i figli di genitori stranieri potevano essere affidati volontariamente o in modo meno pacifico al Kep , in cui ricevevano una formazione identica (studio delle lingue, religione, uso delle armi e così via) a quella dei figli del sovrano egiziano”. Sophie Desplancques, “L’Antico Egitto”, Newton Compton Editori, Collana Biblioteca del Sapere, p. 23.
“Kep”, viene di solito tradotto “figli reali” e possiamo immaginarlo come un programma di egizianizzazione per stranieri. Non è una pratica sconosciuta anche ad altri popoli. Il re babilonese Nabucodonosor infoltiva il suo apparato statale deportando in Babilonia il fior fiore dei giovani delle nazioni che aveva conquistato, e alla sua corte li istruiva sulla lingua e cultura babilonesi. Ne leggiamo nel libro biblico di Daniele.
E’ lecito pensare che Dio usò l’accanimento e la malvagità del re egiziano per cominciare l’opera che avrebbe condotto alla liberazione del Suo popolo. Quindi, con le vicende descritte nell’Esodo, il piccolo ebreo si trovò ad essere introdotto alla corte egiziana, il più grande, meglio organizzato e più evoluto paese del periodo storico in cui egli visse.
Nel 1500 a.C. circa, periodo nel quale ambientiamo la nascita di Mosè, il popolo egiziano era già una civiltà antica circa 1700 anni, computando dal periodo predinastico. Le piramidi venivano costruite da oltre un millennio, visto che alcune fra le più note risalgono a 1200 anni prima e dall’altezza della loro imponenza testimoniavano la grandezza dell’Egitto e del Faraone.
L’orgoglio egiziano non era immotivato.
Nella Genesi e nell’Esodo non viene nominato nessun re egiziano per nome ma è semplicemente definito Faraone. Ciò crea difficoltà (direi insormontabili) nell’identificazione del sovrano del quale sta parlando il testo biblico. Anche in questo, però, la Bibbia si dimostra una straordinaria accuratezza storica. “Il termine “faraone” viene da un’espressione egiziana che significa “grande dal Nuovo Regno designò la persona del re”. Sophie Desplancques, “L’Antico Egitto”, Newton Compton Editori, Collana Biblioteca del Sapere, dallo stesso re. “L’insegnamento di Merikare” è un antico scritto dove un faraone istruisce il proprio figlio sui nobili principi della cultura egiziana, dei quali Faraone deve essere garante ed amministratore ed è un esempio di come il re egiziano percepisse l’importanza del suo ruolo.
E’ credenza comune (e così si sostiene anche nel film “Il Principe d’Egitto”) che il re che si mosse contro gli Ebrei fosse Sethi e che il suo successore Ramesse II fosse il faraone dell’Esodo. Se anche ciò corrispondesse alla realtà storica dei fatti, non cambierebbe nulla alle mie argomentazioni. Tuttavia, ci tengo a precisare che dopo aver letto le tesi di David Rohl e le teorie alla base della sua New Chronology, mi sono convinto che Ramesse non sia il Faraone dell’Esodo. Sono stato anche spinto in questa direzione dalla validità che riconosco alla Bibbia come documento storico, fonte attendibile in linea puramente teorica – almeno dal punto di vista scientifico – almeno quanto ogni altra fonte storica antica, ma praticamente più attendibile di altre.
Mosè viene portato alla corte di Faraone, come figlio adottivo della stessa figlia del re. Ciò implica che Mosè poté avere accesso ai più alti gradi dell’istruzioni della nazione più evoluta che esistesse al mondo. Gli egiziani infatti eccellevano in molti campi e la loro cultura era avanzatissima.
La scrittura classica degli egiziani erano i geroglifici. La bellezza di tale espressione del linguaggio tramite immagine ne favorì l’uso ornamentale all’interno dei vari monumenti funerari e non. Guardiamo questo tipo di scrittura da una parte ammirati per il gusto artistico, dall’altra compiaciuti per i progressi che diamo per scontati considerando il nostro praticissimo alfabeto. In realtà già in tempi remotissimi ai geroglifici si accompagnò in Egitto un più pratico metodo di scrittura chiamato “ieratico”. Quest’ultimo era in pratica un corsivo, che si semplificò ulteriormente nelle epoche successive, assumendo le caratteristiche che lo faranno descrivere agli studiosi con il termine “demotico”.
La scrittura in geroglifici non deve farci pensare che il popolo egiziano fosse primitivo – perché mi è parso che ad alcuni possa sembrare così. L’utilizzo dei geroglifici in quasi tutta la storia egiziana è motivato dalla bellezza di questa forma di scrittura, dal suo innegabile valore decorativo quindi, ma anche dal significato religioso che veniva attribuito ai simboli che la costituivano.
In alto un esempio di scrittura ieratica e geroglifica in basso tratto dalla prestigiosa grammatica di egiziano antico di Alan Gardiner, Egyptian Grammar.
Lo ieratico, vista la sua praticità veniva utilizzato su papiro per scrivere trattati o testi di narrativa.
Purtroppo i papiri non resistono altrettanto bene al trascorre del tempo quanto le incisioni su tombe o monumenti.
Il cosiddetto papiro Rhind, nell’immagine, è un papiro risalente al XVII secolo a.C. Riproduce un testo matematico; contiene anche esercizi di algebra e geometria. La matematica degli egiziani era molto evoluta, come si potrà immaginare dal fatto che furono capaci di costruire le loro piramidi con una precisione anche oggi difficile da eguagliare. Non sarà fuori luogo evidenziare che le più grandi piramidi furono costruite durante il regno antico e che questo papiro risale al secondo periodo intermedio – circa mille anni dopo!
Nell’immagine qui sopra il papiro Edwin Smith, che tratta di medicina.
La scelta degli egiziani di continuare a mantenere la scrittura in geroglifici, come ho già detto, è facilmente spiegabile dal punto di vista storico, per il significato magico attribuito ai segni che utilizzava; ma anche comprensibile vista la bellezza oggettiva e la potenzialità decorativa che questa scrittura possedeva. Abbiamo esempi nella storia più prossimi a noi. I giapponesi, ad esempio, che fanno largo uso ormai del nostro alfabeto, rimangono fedeli alla loro complica scrittura tradizionale. Eppure sono uno dei popoli più avanzati tecnologicamente del pianeta!
Un’ultima cosa va aggiunta, che ci tornerà utile più avanti: la scrittura in geroglifici aveva in sé un seme importante, che sarebbe servito dopo a dare una spinta importante verso la nascita dell’alfabeto: la valenza fonetica di 22 dei suoi segni.
Dal punto di vista politico l’Egitto rappresentava una nazione solida al suo interno, ben organizzata e con un’economia intelligente ed accorta. La politica estera aveva quasi sempre visto il prestigio e la forza egiziana permettere a quella nazione di mantenere un certo controllo della zona palestinese, con il conseguente buon uso delle vie commerciali che collegavano l’Egitto alla Mesopotamia. La posizione dell’Egitto era duplicemente vantaggiosa. Da una parte si affacciava sul Mediterraneo, dall’altra era protetto dalla natura del territorio nelle vie che lo collegavano alla Mezzaluna Crescente.
Era questa la nazione più grande del mondo di allora, paragonabile agli Stati Uniti d’America dei nostri giorni.
Dio aveva fatto si che il futuro legislatore del suo popolo ricevesse la migliore istruzione disponibile allora sul pianeta. Alla corte di Faraone soltanto Mosè avrebbe potuto apprendere l’antica sapienza degli egiziani, la scrittura, le più evolute conoscenze matematiche, scientifiche, mediche, ecc …
Ma non era ancora pronto. Qualcosa doveva ancora avvenire nella sua vita prima di poter essere adatto al compito al quale Dio stava per chiamarlo.
“In quei giorni, Mosè, già diventato adulto, andò a trovare i suoi fratelli; notò i lavori di cui erano gravati e vide un Egiziano che percoteva uno degli Ebrei suoi fratelli. Egli volse lo sguardo di qua e di là e, visto che non c’era nessuno, uccise l’Egiziano e lo nascose nella sabbia. Il giorno seguente uscì, vide due Ebrei che litigavano e disse a quello che aveva torto: “Perché percuoti il tuo compagno?” Quello rispose: “Chi ti ha costituito principe e giudice sopra di noi? Vuoi forse uccidermi come uccidesti l’Egiziano?” Allora Mosè ebbe paura e disse: “Certo la cosa è nota”. Quando il faraone udì il fatto, cercò di uccidere Mosè, ma Mosè fuggì dalla presenza del faraone, e si fermò nel paese di Madian e si mise seduto presso un pozzo. Il sacerdote di Madian aveva sette figlie. Esse andarono al pozzo ad attingere acqua per riempire gli abbeveratoi e abbeverare il padre. Ma sopraggiunsero i pastori e le scacciarono. Allora gregge di loro Mosè si alzò, prese la loro difesa e abbeverò il loro gregge. Quando esse giunsero da Reuel, loro padre, questi disse: “Come mai siete tornate così presto oggi?” Esse risposero: “Un Egiziano ci ha liberate dalle mani dei pastori, per di più ci ha attinto l’acqua e ha abbeverato il gregge”. Egli disse alle figlie: “Dov’è? Perché avete lasciato cibo”. Mosè accettò di là quell’uomo? Chiamatelo, ché venga a prendere del abitare da quell’uomo. Egli diede a Mosè sua figlia Sefora. Ella partorì un figlio che Mosè chiamò Ghersom; perché disse: “Abito in terra straniera“. (Esodo 2:11-22)
Mosè abbandona l’Egitto per fuggire al guaio che ha combinato – inutile nascondere la realtà. Ma è proprio di quell’uomo in fuga, senza una vera identità nazionale (era un ebreo che ha le sembianze di un egiziano – Esodo 2:19) che Dio farà il più grande legislatore della storia dell’umanità. I madianiti erano discendenti di Abramo. Quando Mosè entrò in contatto con questo popolo nomade, aveva circa quarant’anni e con loro rimase per altri quarant’anni.
In quegli anni egli apprese le antiche tradizioni mesopotamiche sulla creazione, sul diluvio, sulla nascita delle prime città. Egli apprese lì la cultura del Abraamo, Isacco e Giacobbe.
C’è un problema di fondo della storia antica che adesso ritengo importante dover comunicare al lettore per ben comprendere alcune problematiche.
Siamo in condizione di ricostruire la storia antica dell’Egitto e grazie ai ritrovamenti archeologici che testimoniano di queste grandi della Mesopotamia culture del passato, integrando queste informazioni con i pochi scritti storici che sopravvivono. Questi ritrovamenti archeologici sono possibili grazie al fatto che tali antiche civiltà erano sedentarie. Quindi vivevano in città, costruivano palazzi con iscrizioni. Avevano archivi dove raccoglievano informazioni amministrative, commerciali, ecc … Possedevano biblioteche – il re assiro si vantava di possedere una biblioteca con oltre 100.000 testi. Non è un caso se molto di ciò che sappiamo è dovuto a documenti o testi che venivano incisi e conservati su tavolette. E’ il caso della cosiddetta corrispondenza di Amarna o degli archivi di Ebla, della stele di Rosetta, del codice di Hammurabi.
Sarebbe, però, ingenuo credere che possediamo una testimonianza del passato che attinga a più dell’1% della documentazione che deve essere esistita. Abbiamo pochi papiri, supporto per scrittura molto pratico e maneggevole – come la nostra carta – ma poco resistente nel tempo. Eppure molta letteratura e documenti devono aver avuto una diffusione su questo tipo di materiale da scrittura. Frammenti di papiro ci sono giunti da epoche remotissime e non è difficile supporre che questo fosse diffuso anche quando ancora venivano utilizzate le tavolette di argilla, con funzioni ed usi diversi. Ovviamente i papiri non potevano resistere al decadimento causato dal tempo – credete che la nostra carta potrebbe preservare i nostri libri per oltre 2000 anni? O, visto che ora stiamo digitalizzando tutto, se cambiassero nei secoli le fonti di energia e la nostra civiltà subisse – come è già accaduto nella storia – un salto indietro, la nostra cultura della quale andiamo tanto fieri, non potrebbe andare quasi del tutto perduta? Se vi sono stati dei films di fantascienza che hanno trattato questo tema è perché vi è scientificamente la possibilità che ciò accada5. Ed in una certa misura ciò è accaduto alle civiltà del passato.
Se non fosse stato per la testimonianza della Bibbia, sarebbe andata perduta la memoria dell’antico oriente e dell’antico Egitto. L’archeologia è in realtà una scienza relativamente giovane, tanto che siamo ancora lontani persino dall’avere esaminato e valutato tutti i ritrovamenti degli ultimi due secoli. Si discute ad esempio ancora della corrispondenza di Amarna, scoperta oltre un secolo fa. Abbiamo appena grattato la superficie della scoperta dei rotoli del Mar Morto senza riuscire ad avere un verdetto unanime sull’autentico significato di questo importantissimo ritrovamento6.
Non ci dobbiamo quindi meravigliare se di popolazioni nomadi come era il clan di Abraamo, Isacco e Giacobbe, così come era il popolo dei madianiti, non possediamo alcuna prova archeologica che ci metta in condizione di sapere più di quanto ci riferisce la Bibbia.
Essendo nomadi, non vi erano monumenti che potevano resistere al trascorrere del tempo. Non è inoltre verosimile che utilizzassero delle tavolette di argilla per scrivere, perché ciò avrebbe reso i loro archivi e la loro letteratura difficile da trasportare. Essendo pastori, è molto più probabile che si affidassero alla scrittura su pelli di animali per la trasmissione e diffusione della loro cultura.
Mosè ebbe tempo – circa quarant’anni – per ricevere un’accurata istruzione sulla cultura del Dio unico – la stessa cultura tramandata dai patriarchi del suo popolo.
All’età di ottant’anni Mosè era pronto, il perfetto strumento nelle mani di Dio per portare a compimento il più grande compito della storia del popolo di Israele: l’esodo di un intero popolo fuori dall’Egitto.
Alcuni sottovalutano l’importanza della scuola, dello studio, della cultura. Io no. Io credo, per l’esperienza che viene anche dalla Parola di Dio, che è molto importante per un cristiano avere più istruzione possibile. Mosè era un uomo istruito nelle più importanti culture del tempo. Paolo era poliglotta e profondo conoscitore della cultura ebraica e greca – fu così che Dio ne fece il primo grande strumento per la diffusione della nostra fede fra i non ebrei. Gli apostoli erano ebrei, ma ben istruiti nella Sacra Scrittura; conoscevano l’ebraico, per leggere le Scritture, l’aramaico, che gli ebrei del tempo parlavano nella vita quotidiana, e il greco, lingua Testamento.
Personalmente devo dire che lo studio della storia antica e delle lingue bibliche (ma non solo) mi hanno aiutato a comprendere meglio la Parola di Dio. Mi hanno inoltre dato cognizione di causa per dire attendibile o è ignorante o che chi crede che la Bibbia non sia un libro storicamente è in malafede – perché fondamentalmente spaventato dall’autorità spirituale che rivendica la Parola di Dio! Sono le mie conclusioni, mi scuso con chi non le condivide; ma le sosterrò finché non mi sarà stato dimostrato che siano errate.
La conoscenza, la cultura, non sto dicendo questo, non può prendere il posto dello Spirito Santo. E’ quest’ultimo che ci fa comprendere la Parola di Dio. Senza di Lui, il significato spirituale della Sacra Scrittura non può essere percepito. Non possiamo, quindi, da cristiani nemmeno commettere l’errore inverso ed affidarci totalmente ed esclusivamente alla nostra cultura ed istruzione – non basterebbe.
Senza la Rivelazione personale di Dio a Mosè, i suoi scritti o le sue considerazioni non sarebbero andate molto più lontano della filosofia greca. Senza l’assistenza dello Spirito Santo le convinzioni di Paolo non sarebbero state la guida della dottrina della Chiesa per due millenni, ma solo un impossibile tentativo di far uscire la fede ebraica al di fuori dei suoi confini storici nazionali.
E’ vero che è Dio che ha in mano lo strumento e che è questo che fa la differenza. Ma è anche vero che non si può martellare un chiodo con un giravite o suonare un concerto per pianoforte con una pianola. Il Signore stesso ha creato le condizioni perché questi strumenti fossero forgiati e pronti per l’utilizzo per il quale Lui li aveva preparati. Ed anche noi abbiamo il dovere di seguire la volontà di Dio per essere pronti nella nostra vita al compito al quale il Signore ci prepara.
Ormai giunto ai suoi ottant’anni, Mosè era finalmente pronto ad incontrare Dio ed a conoscere il motivo delle cose straordinarie che avevano interessato la sua vita.
“Mosè pascolava il gregge di Ietro suo suocero, sacerdote di Madian, e, guidando il gregge oltre il deserto, giunse alla montagna di Dio, a Oreb. L’angelo del SIGNORE gli apparve in una fiamma di fuoco, in mezzo a un pruno. Mosè guardò, ed ecco il pruno era tutto in fiamme, ma non si consumava. Mosè disse: “Ora voglio andare da quella parte a vedere questa grande visione e come mai il pruno non si consuma!” Il SIGNORE vide che egli si era mosso per andare a vedere. Allora Dio lo chiamò di mezzo al pruno e disse: “Mosè! Mosè!” Ed egli rispose: “Eccomi”. Dio disse: “Non ti avvicinare qua; togliti i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale stai è suolo sacro”. Poi aggiunse: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio d’Abraamo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe”. Mosè allora si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Dio. Il SIGNORE disse: “Ho visto, ho visto l’afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni. Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei. E ora, ecco, le grida dei figli d’Israele sono giunte a me; e ho anche visto l’oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire. Or dunque va’; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall’Egitto il mio popolo, i figli d’Israele”. Mosè disse a Dio: “Chi sono io per andare dal faraone e far uscire dall’Egitto i figli d’Israele? ” (Esodo 3:1-11)
Sappiamo tutti cosa accadde dopo e come Dio usò Mosè per liberare il suo popolo e guidarli nel deserto prima – che aveva imparato a conoscere negli anni durante i quali aveva vissuto da nomade con i madianiti – e nella “terra promessa” poi, in capo ai terzi quarant’anni della sua vita.
Fu durante quel periodo che Mosè lasciò il segno nella storia di Israele in maniera indelebile, nella composizione della Torah, la Legge.
Dio lo aveva preparato anche per questo compito.
Ho già dato dei cenni sulla scrittura egiziana.
La funzionalità raggiunta dallo ieratico già in tempi remotissimi, aveva permesso agli egiziani di scrivere testi di narrativa, trattati di matematica, scritti di medicina. I presupposti c’erano tutti perché Mosè potesse mettere per iscritto – come Dio stesso gli aveva comandato di fare – la Legge.
Ma c’era un problema.
La scrittura egiziana era profondamente legata alla lingua del popolo che l’aveva concepita e non era probabilmente adatta per altre lingue. Ma aveva in sé una potenzialità: 22 segni geroglifici avevano infatti valenza consonantica, costituivano, quindi, un vero e proprio alfabeto. Venivano utilizzati quando dovevano trascriversi dei nomi non egiziani, per permettere, con simboli fonetici, consonantici, di mettere per iscritto anche le parole di altre lingue.
Qualcosa di simile era accaduto in Mesopotamia. Quando la lingua sumerica scomparve, gli scribi si adoperarono per utilizzare la scrittura cuneiforme per la nuova lingua dominante, l’accadico. Ma non senza difficoltà, visto il legame intimo esistente fra il sumerico e quella forma di scrittura. Fu per questo che anche quando la lingua dei sumeri divenne ormai una lingua morta, la si continuò a far studiare agli scribi per poter meglio comprendere i meccanismi della scrittura cuneiforme. Per molto tempo la cultura orientale non volle arrendersi alla rivoluzione dell’alfabeto aramaico, preferendo ancora per lungo tempo dopo la sua comparsa e spontanea diffusione, la complicata – ma culturalmente propria! – scrittura in caratteri cuneiformi!
La praticità dell’alfabeto – con qualsiasi tipo di segni lo si rappresenti – è evidente. Esso, in quanto esprime il suono di consonanti e vocali, può asetticamente adattarsi a qualsiasi lingua. Esistono dei testi in siciliano antico trascritti con alfabeto ebraico: sono tali le potenzialità dell’alfabeto!
Qui di seguito il nome di Cleopatra scritto utilizzando il valore fonetico dei geroglifici. 8
L’immagine è tratta da “Egyptian Grammar, being an introduction to the study of Hieroglyphs”, by Sir Alan Gardiner, p.14.
Questa stupenda grammatica spiega che l’alfabeto egiziano era costituito da 22 segni, anzi da 22 consonanti. Gli scribi egiziani infatti ignoravano le vocali, per motivazioni connesse ad una praticità possibile nella loro lingua. Due simboli comunque hanno una valenza semi-consonantica, identificabili con una “i” ed una “u”.
Come l’egiziano anche l’alfabeto ebraico ha 22 consonanti e nessuna vocale. Ha, come l’egiziano, delle consonanti con valenza di vocali che permettono una maggiore precisione nella pronuncia.
Ovviamente Mosè non scrisse nell’alfabeto ebraico che vediamo oggi. Quella forma di scrittura “quadrata” fu adottata dal popolo ebraico molti secoli dopo, presa in prestito dall’aramaico.
Egli probabilmente utilizzò qualcosa di simile all’alfabeto protosinaitico, detto così per le tracce rimaste nelle miniere del Sinai, ed è per questo che è stato definito protosinaitico.
L’alfabeto utilizzato dagli ebrei del primo tempio è il cosiddetto proto ebraico, del quale si trovano tracce nei manoscritti di Qumran, risalenti ad un periodo compreso fra il II secolo a.C. e la prima metà del I secolo.
E’ possibile che da questo ottimo punto di partenza, Mosè aveva gli strumenti per mettere per iscritto la lingua ebraica in un alfabeto che poteva adattare alle esigenze della sua lingua.
“… ci vollero le capacità poliglotte di un colto principe d’Egitto ebreo per trasformare queste prime semplici incisioni in una scrittura funzionale, capace di veicolare idee complesse e un racconto fluente. I Dieci Comandamenti e le Leggi di Mosè erano scritte in lingua protosinaitica. Il profeta di Yahweh, che aveva dimestichezza sia con la letteratura epica egizia, sia con quella mesopotamica, non fu solo il padre fondatore del Giudaismo, della Cristianità e, attraverso le tradizioni iraniche, dell’Islam, ma fu il progenitore delle scritture alfabetiche ebraica, cananea, fenicia, greca e, quindi, del moderno mondo occidentale.” – David Rohl, Il Testamento Perduto, Newton & Compton Editori, pag. 222-223.
La storia, quindi, insieme alle Sacre Scritture ci dice che Mosè fu il prodotto dell’incontro di due culture. Entrambe servirono ad istruirlo ed a formarlo culturalmente e personalmente. Ma fu poi nelle mani di Dio che ogni cosa che gli era successa e quello che la sua esperienza l’aveva fatto diventare, che tutto ebbe finalmente un senso. Grazie all’intervento di Dio un esiliato dal suo popolo e dal suo popolo di adozione, poté divenire il mezzo per l’esodo del popolo di Dio fuori dall’Egitto e l’autore, grazie alla guida dello Spirito Santo, delle prime pagine di quel libro che noi definiamo le Sacre Scritture.
Di seguito riporto una pagina di un giornale immaginario che ho disegnato un po’ per gioco, un po’ sperando che potesse interessare e diventare un progetto vero e proprio.
“Adamo conobbe Eva, sua moglie, la quale concepì e partorì Caino, e disse: “Ho acquistato un uomo con l’aiuto del SIGNORE”. Poi partorì ancora Abele, fratello di lui. Abele fu pastore di pecore; Caino lavoratore della terra. Avvenne, dopo qualche tempo, che Caino fece un’offerta di frutti della terra al SIGNORE.
Abele offrì anch’egli dei primogeniti del suo gregge e del loro grasso. Il SIGNORE guardò con favore Abele e la sua offerta, ma non guardò con favore Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato, e il suo viso era abbattuto.
Il SIGNORE disse a Caino: “Perché sei irritato? e perché hai il volto abbattuto? Se agisci bene, non rialzerai il volto? Ma se agisci male, il peccato sta spiandoti alla porta, e i suoi desideri sono rivolti contro di te; ma tu dominalo!”
Un giorno Caino parlava con suo fratello Abele e, trovandosi nei campi, Caino si avventò contro Abele, suo fratello, e l’uccise.
Il SIGNORE disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?” Egli rispose: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?”
Il SIGNORE disse: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra.”
Questo brano è uno dei più tristi di tutta la Bibbia. Mi sono chiesto: “come mai è così sintetico?” Mi sono risposto nel seguente modo: “perché non basterebbero libri e libri per analizzare ciò che succede qui, ma lo Spirito Santo che ci ammaestra ed alla luce di tutta la Scrittura, riusciamo a comprendere quanto questa narrazione sia profonda e piena di significato.” Spero questa spiegazione vada bene anche per voi.
Caino ed Abele erano fratelli. Erano nati dagli stessi genitori e cresciuti nella stessa casa, quindi è ragionevole pensare che fossero stati cresciuti allo stesso modo. Eppure Caino prese una strada ed Abele un’altra.
Ad un certo punto, Caino, agricoltore, fa una meravigliosa offerta a Dio, profumata, colorata, di frutta, stupendi prodotti della terra.
Abele ne fece un’altra, sanguinaria e cruenta, con sangue appiccicoso di animale e grasso.
Eppure Dio gradì il sacrificio di Abele. Immaginate l’incredula rabbia di Caino, una rabbia che lo porterà fino all’estremo di uccidere il fratello.
Perché il sacrificio di Abele venne accettato da Dio e quello di Caino no?
“Per fede Abele offrì a Dio un sacrificio più eccellente di quello di Caino; per mezzo di essa gli fu resa testimonianza che egli era giusto, quando Dio attestò di gradire le sue offerte; e per mezzo di essa, benché morto, egli parla ancora”. (Ebrei 11:4)
Fu la fede a fare la differenza.
Chiunque con la propria intelligenza avrebbe detto che un’offerta di frutta sarebbe stata più gradevole di una che prevedeva l’uccisione di un animale e lo spargimento di sangue. Caino deve essersi sentito orgoglioso, certo di aver fatto meglio di suo fratello. E non si chiese nemmeno perché Dio non accettò la sua offerta quando il Signore stesso lo interrogò e lo incitò a fare bene. Non cercò di riparare, di andare da suo fratello e scambiare i suoi frutti con degli animali per offrire di corsa anche lui un offerta gradita a Dio. Forse il suo orgoglio non glielo permetteva. Gli mancò la fede.
La fede si estrinseca nell’obbedienza. L’obbedienza conduce alla benedizione, personale e degli altri che ci stanno intorno. E solo grazie alla nostra obbedienza Dio potrà mostrare la Sua Potenza e la Sua Gloria. Infatti proprio grazie all’obbedienza di Abele troviamo già nelle prime pagine della Parola di Dio, ispirata dallo Spirito Santo, l’annuncio profetico del sacrificio di Gesù avvenuto millenni dopo, per la nostra salvezza.
Il comportamento di Caino ci parla dell’espressione di una religiosità personale che tanto caratterizza chi vuol credere a modo proprio. Caino vuole offrire a Dio ciò che egli ritiene giusto e quando Dio stesso gli parla (Genesi 4:6-7) non lo interroga nemmeno per capire dove ha sbagliato. È come se ad ogni costo egli volesse, per orgoglio, per mancanza di fede, come deduciamo dal brano di Ebrei citato, far prevalere il suo modo di credere e di fare “religione”.
Molti vogliono offrire a Dio il sacrificio che loro ritengono giusto, vogliono servire Dio come più pare a loro e non vanno alla Sacra Scrittura per capire se è davvero a quel modo che Dio vuole che essi agiscano: perché prevale l’orgoglio, la convinzione personale e non il bisogno di obbedire alla Parola di Dio.
Caino ed Abele erano fratelli, ma i loro destini furono totalmente opposti. Oggi molta gente si sente come intrappolata all’interno della propria sorte, dettata da fattori esterni determinanti. Ma non è così. Caino ed Abele avevano vissuto nella stessa casa, nelle stesse condizioni. Come loro allora, anche noi siamo esseri umani pensanti e con una spiritualità. E quando la Parola di Dio ci viene annunciata il nostro spirito sussulta perché riconosce la voce del nostro Creatore e Dio. Sta a noi, alla nostra libera e consapevole scelta, rispondere alla Sua chiamata o meno.
“Badate di non rifiutarvi d’ascoltare colui che parla … ” (Ebrei 12:25) è il monito della Bibbia ad ogni uomo … anche a te che stai leggendo queste parole. Possa Dio guidarti a fare la scelta giusta ed abbracciare il Suo amore in Cristo, per la tua salvezza.