Filippesi 2:5-11, la kenosi di Cristo
Impariamo l’umiltà dal Maestro
Leggi il pdf: Filippesi 2 la Kenosi di Cristo
Tradurre la Bibbia non è cosa da poco. Ho tradotto dal greco originale Colossesi, prima Giovanni e i primi quattro capitoli del Vangelo di Marco. So per esperienza che non è affatto facile, specie se si ha la responsabilità di tradurre un testo biblico.
Per anni ho fatto da traduttore commerciale e da simultaneista, ma paradossalmente ciò è più facile rispetto a tradurre un testo biblico. Perché mettere per iscritto significa fermare nel tempo e rendere definitivo il proprio lavoro.
Spesso quelli che vengono frettolosamente considerati errori di traduzione nel passaggio da una versione all’altra, sono in realtà soltanto il risultato di una scelta fatta dal traduttore 1) a monte quando stabilisce che metodo adotterà per tradurre, o 2) quando decide quale edizione critica del testo originale adotta o 3) davanti a ogni singolo brano quando più di un significato è possibile nella parola o nella frase originale e bisogna fare una scelta per forza di cosa limitata a un solo vocabolo.
Un esempio concreto. Giovanni 3:3. La versione CEI 2008 legge: “Gli rispose Gesù: “In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio“. Le versioni a noi evangelici più familiari, Diodati, Nuova Diodati, Nuova Riveduta, traducono invece: “Gesù gli rispose dicendo: “In verità, in verità io ti dico che se uno non è nato di nuovo, non può vedere il regno di Dio”.
Entrambe le versioni sono possibili, perché, nel testo greco originale, entrambi i significati sono possibili e certamente entrambe le sfumature del greco erano percepite dai lettori originari. Ma nel tradurre si può riportare un solo vocabolo e in una versione è stata fatta una scelta diversa rispetto ad un’altra, tutto qui.
Dopo aver sentito l’apostolo Incontro predicare la scorsa domenica, mi ha colpito la sua citazione di Filippesi 2:5-11 e il fatto che preferisse il vocabolo “pensiero” piuttosto che quello adottato da tutte le versioni italiane “sentimento” mi ha spinto ad andare ad approfondire nuovamente il testo greco e la sua possibile traduzione. Ho notato un fatto singolare. Le versioni italiane, CEI, Nuova Riveduta, Diodati, Nuova Diodati, Riveduta Luzzi, Tintori, sono tutte per il vocabolo “sentimento” o “sentimenti”. Mentre le versioni in lingua inglese sono orientate diversamente, rendendo lo stesso vocabolo con “mindset” (NIV), “proposito”, “mind” (Geneva Bible, KJV, ASV, NKJV, MEV), cioè “pensiero”, con una minoranza che offre una plausibile alternativa utilizzando il vocabolo “attitude” (GNT), “atteggiamento”.
Quindi sono andato a rileggere il testo in greco e ho consultato le grammatiche e i commentari e ho poi letto e riletto il testo in greco.
Quello che ho ulteriormente capito e appreso vorrei trasmetterlo al lettore riportandolo di seguito.
Il mio compito è più facile di quello di un traduttore biblico, perché posso aggiungere ad una mia libera versione un commento che spieghi in dettaglio il senso che mi trasmette questo meraviglioso brano della Scrittura.
La struttura sembra quella di un inno. E come tale credo vada visto. Ciò spiega anche la natura del linguaggio. Una caratteristica, però, mi colpisce: sebbene il testo sia di difficile traduzione, allo stesso tempo, paradossalmente, trasmette un messaggio chiaro e di devastante semplicità.
5Sia in voi questo pensiero,
che fu anche in Cristo Gesù,
6il quale, essendo in forma di Dio
non ritenne il suo essere uguale a Dio qualcosa cui aggrapparsi
7ma svuotò se stesso
prendendo forma di servo
divenendo ad immagine degli uomini.
8Ed essendo trovato nell’esteriore come un uomo
egli si umiliò,
essendo obbediente fino alla morte,
la morte in croce.
9E per questo Dio lo ha esaltato
dandogli un nome che è al di sopra di ogni nome.
10 Affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio
nei cieli, sulla terra e sotto la terra 11e ogni lingua confessi
che Gesù Cristo è Signore
alla gloria di Dio Padre.
Spesso utilizziamo questo brano per questioni che riguardano la divinità di Cristo. E non è una cosa sbagliata. Qui infatti è ribadito che Cristo è Dio, ed essendo Dio si è spogliato della sua divinità per farsi uomo. Gesù è vero Dio e vero uomo. Ma non è questo il punto centrale nel discorso che fa Paolo. Per comprendere in quale contesto viene proposto questo meraviglioso inno all’amore di Dio per noi, dobbiamo leggere i versi che l’hanno preceduto.
“1Se dunque vi è qualche consolazione in Cristo, se vi è qualche conforto d’amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza d’affetto e qualche compassione, 2rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e una sola mente, 3non facendo nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con umiltà, stimi gli altri superiori a sé stesso, 4avendo ciascuno di voi riguardo non alle cose proprie, ma anche a quelle degli altri ” (Filippesi 2:1-4).
Cristo ha dato l’esempio.
Spesso, anzi spessissimo, la gente ci delude. Chi ha autorità di qualsiasi tipo la usa per il proprio tornaconto. Ma, riflettendo con un po’ di autentico senso di introspezione, quante volte siamo proprio noi i primi a deludere noi stessi?
Gesù stesso disse ai suoi discepoli: “Ma Gesù, chiamatili a sé, disse loro: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti i sovrani delle nazioni le signoreggiano, e i loro grandi esercitano dominio su di esse; ma tra voi non sarà così; anzi chiunque vorrà diventare grande tra voi, sarà vostro servo” (Marco 10:42-43). Questo discorso Gesù lo chiude riassumendo quello che viene ribadito di fatto in Filippesi 2: “Poiché anche il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti” (Marco 10:45)
Gesù, pur essendo Dio, pur essendo più in alto di chi per un motivo o per un altro ritiene di avere di che vantarsi, non ha esitato, e per amore di coloro che in buona parte erano suoi nemici, e per gli amici che ad un certo punto gli avrebbero voltato anche loro le spalle, si è fatto uomo, è stato obbediente in ogni cosa alla Parola di Dio ed alla Volontà del Padre. Ha portato un messaggio d’amore, ha guarito nel corpo e nello spirito chi cercava in lui liberazione, ha promosso pace, comprensione reciproca e perdono. L’amore estremo, più radicale che si possa immaginare l’ha proposto Gesù: “Voi avete udito che fu detto: ‘Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico’. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano” (Matteo 5:43-44). E quando era prossimo al suo arresto, conscio di ciò cui sarebbe andato incontro, anche lì, in quel momento estremo, per lui così terribile, non si è sottratto, ma ha pregato: “Padre, se tu vuoi, allontana da me questo calice! Però non la mia volontà, ma la tua sia fatta” (Luca 22:42). La sua obbedienza a Dio gli ha fruttato presso gli altri uomini soltanto la condanna alla morte più infamante e dolorosa, quella per crocefissione. Pilato lo disse apertamente: “io non trovo in lui nessuna colpa” (Giovanni 19:6). Ma non servì a nulla, il popolo gridò: “Crocifiggilo, crocifiggilo!” (Giovanni 19:6). Eppure sulla croce Egli disse: “Padre perdonali, non sanno quello che fanno”.
Questo uomo e questo Dio può non amarlo solo chi non lo conosce, solo chi non considera il suo immenso Amore.
Paolo ci invita ad imitare Cristo, ecco il senso primo di Filippesi 2:5-11. Ma a volte ci perdiamo in discorsi di teologia, cristologia – parlo a me stesso! Che ci stanno, non dico di no. Ma che non possono prendere il posto del vero, immediato, semplice, devastante significato del contesto nel quale queste parole sono inserite.
La bellezza di questo inno non possiamo ridurla ad un’arma da utilizzare contro i Testimoni di Geova quando vogliamo dimostrare che il nostro Gesù è Dio e che Dio stesso – e non un altro – si è fatto uomo per salvarci. Questo inno lo dobbiamo ricordare quando vorremmo dirgliene quattro a qualcuno (parlo ancora a me stesso); quando notiamo dei comportamenti che non ci piacciono nel fratello o nella sorella; o quando vorremmo farci giustizia da noi, perché forse siamo noi vittime di una eccessiva autostima piuttosto che gli altri di comportamenti errati.
Nell’umiltà e nell’obbedienza forse non vi sarà un riconoscimento da parte dei nostri simili. Il premio che conta, però, è l’approvazione di Dio e la sua Grazia verso di noi. Così come per Cristo: la sua obbedienza l’ha portato ad essere innalzato da Dio, al punto di ricevere un nome al di sopra di ogni altro nome.
Che brano meraviglioso! E che Dio meraviglioso! Grazie Gesù per questo amore così grande: il credente è parte del teologo qui, scusate.
Gesù stesso l’aveva detto: “Nessuno ha amore più grande di quello di dare la sua vita per i suoi amici” (Giovanni 15:13). E poco prima aveva chiarito: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Giovanni 15:12).
A mio avviso, quindi, in Filippesi 2:5 è meglio fare riferimento al “pensiero” piuttosto che al “sentimento”, come fanno le versioni italiane, perché il comportamento del cristiano deve essere una naturale conseguenza di una ponderata riflessione su quello che qui la Scrittura riporta alla nostra mente: più che una spinta emotiva, è necessaria una consapevolezza che nasce dalla attenta considerazione dell’esempio che ci ha dato il nostro Signore e Salvatore Gesù.
Tornando d’altra parte a quanto detto all’inizio di questa riflessione, potremmo dire che una sfumatura della lingua originale messa in evidenza da una traduzione non per forza ne esclude un’altra. Potremmo aggiungere che la riflessione diviene azione tramite al sentimento, all’atteggiamento, al proposito che ci induce il considerare fatti talmente meravigliosi sul nostro Signore Gesù, Dio che si fa uomo per amore. Più prospettive arricchiscono la nostra comprensione del significato di questo meraviglioso inno.
Detto ciò, mettendo al servizio di chi non conosce la lingua greca originale la mia esperienza, ritengo doveroso soffermarmi, brevemente, sulla cristologia di questo brano con riferimento al testo originale.
Non si scoraggi chi non conosce il greco, ma vuole comunque cimentarsi nella lettura, perché offrirò una traslitterazione in italiano e cercherò di essere il più chiaro possibile. Perché alcuni dettagli del greco qui sono proprio interessanti.
Lo stato di Gesù nell’eternità descritto con “essendo in forma di Dio” se da una parte non esplicita necessariamente un’esistenza senza inizio, la implica, in quanto dipinge uno stato e non un divenire: e la Deità non può acquistarsi. Gesù è Dio e qui viene detto in una maniera piuttosto singolare: “ἐν μορφῇ Θεοῦ ὑπάρχων” (en morfe theu uparchon) egli è in forma di Dio. La versione CEI opta per una traduzione non letterale: “natura di Dio”. Ma non sono certo che sia un termine adatto. Il termine “natura” implica un fatto intrinseco della persona del Cristo. Qui invece, se fate bene attenzione a tutto il brano, sembra che Paolo voglia dipingere un’immagine al lettore e la prospettiva sia la nostra che visualizziamo ciò che il testo descrive, esterna direi.
Il contesto ci aiuta a capire che l’interesse è stabilire che prima di farsi uomo Gesù era vero Dio, la sua posizione, più elevata di quella che chiunque potrebbe mai sperare di immaginare. Ciò non è un problema teologico, bensì legato alla praticità dell’insegnamento che qui si vuole dare. Insomma, si vuole sottolineare che il suo stato, la sua eterna gloria, non gli impedì di essere pronto a fare quanto era necessario per la nostra salvezza: “οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο τὸ εἶναι ἴσα Θεῷ ἀλλὰ ἑαυτὸν ἐκένωσεν” (uch arpagmon eghesato to einai isa Theo, alla eauton ekenosen), non si aggrappò quindi al suo essere (uguale a) Dio mostrandosi agli uomini come tale, obbedì invece all’eterno consiglio del Padre svuotando se stesso della sua gloria, spogliandosi della sua divinità. Nella versione interlineare che segue tradurrò letteralmente: “non considerò rapina l’essere uguale a Dio”, una lezione seguita dalla vecchia Diodati. Inutile nascondersi dietro un dito: il testo è di difficile traduzione. Oggi la lezione preferita è che egli “non si aggrappò al suo essere Dio”, cioè non considerò irrinunciabile la sua posizione (non la natura) di Dio, ma non ho voluto trascurare la menzione della possibile alternativa. Anche in questo punto del testo, davanti ad una difficoltà di traduzione, abbiamo una facilità di interpretazione legata all’evidenza che l’essere Dio, i privilegi e lo stato che ciò implicava, non fermarono Gesù dal farsi uomo.
Una parentesi purtroppo necessaria. La versione dei Testimoni di Geova traduce così il verso 6: “il quale, pur esistendo nella forma di Dio, non prese nemmeno in considerazione l’idea di cercare di essere uguale a Dio”. Questo volo pindalico di fantasia esegetica tramutato in una sorta di parafrasi del testo, crea l’evidente contradizione (per chi sa leggere il testo in greco e persino nella sua traduzione) che chi viene già descritto come Dio (in forma di Dio) viene descritto nella frase seguente come chi non osa cercare di essere uguale a Dio. Un tentativo di “divenire”, impossibile davanti alla presenza di un verbo “essere”, che invece indica uno stato, svuota – mi si permetta il voluto riferimento – l’autentico senso dell’affermazione di Paolo che sta parlando di Gesù il quale essendo Dio decide di divenire uomo. Ne ho parlato nel mio libro “La Bibbia dei Testimoni di Geova”. La Torre di Guardia utilizza un metodo di traduzione che ne determina i disastrosi risultati: Gesù non può essere Dio e quindi tutti i brani che lo affermano, non possono affermarlo e vanno tradotti in maniera che si eclissi questa Verità. Dovrebbe procedersi però esattamente al contrario: non manipolando la Scrittura in base a ciò che si crede a priori, ma credendo ciò che essa afferma.
Prese “forma di servo”, come dice il greco, “μορφὴν δούλου λαβών” (morfèn dulu labon). Λαβών (labon) è aoristo participio attivo del verbo λαμβάνω (lambano) “prendere”: si tratta quindi di un atto volontario, una scelta precisa. Ciò non può non rimandare alle parole che troviamo nel vangelo di Giovanni: “Per questo mi ama il Padre, perché io depongo la mia vita per prenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la depongo da me stesso; io ho il potere di deporla e il potere di prenderla di nuovo; questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio” (Giovanni 10:17-19).
Il verbo utilizzato per descrivere l’incarnazione del figlio di Dio, “ἐκένωσεν” (echenosen) al tempo aoristo, terza persona singolare del verbo κενόω, svuotare. “ἑαυτὸν ἐκένωσεν”, “svuotò se stesso”, ha anche il significato qui molto pertinente di rinunciare ad una condizione elevata o a dei privilegi. Traendo spunto da questo verbo, la teologia descrive come Kenosi l’incarnazione del Cristo vista nella prospettiva proposta da questo brano della Scrittura.
Notiamo il contrasto fra “essere” Dio e “divenire” servo.
Nelle due espressioni (μορφῇ Θεοῦ e μορφὴν δούλου) “forma di Dio” e “forma di servo” rintracciamo la certezza che egli veramente divenne uomo, come veramente è Dio. Paolo non dice che Gesù “era” in forma di Dio, quindi abbandonò la sua divinità per divenire uomo, ma che egli “essendo” in forma di Dio ha “svestito” la maestà della sua condizione per vestirla della sua umanità: divenendo vero uomo, resta vero Dio. Per spiegare ciò viene utilizzato un vocabolario preciso: “ἐν ὁμοιώματι ἀνθρώπων γενόμενος” (en omoiomati anthropon ghenomenos) “divenendo simile agli uomini”, in parole povere, diventando uomo fra gli uomini. E continua chiarendo: “καὶ σχήματι εὑρεθεὶς ὡς ἄνθρωπος” (chai schemati euretheis os anthropos), “ed essendo trovato nell’esteriore come un uomo”, cioè essendo a tutti gli effetti un uomo. In parole povere l’incarnazione del Figlio di Dio non fu una messa in scena, veramente divenne uomo, veramente si spogliò nell’esteriore del suo essere Dio. Ciò gli permise di distruggere l’opera del Diavolo, di essere il secondo Adamo che con la sua obbedienza ha riparato al danno commesso dal primo con la sua disobbedienza – Vedi Romani 2.
Ribadisco, qui Paolo non fa una lezione di teologia o cristologia fine a se stessa, ma ci mette davanti un esempio. Un esempio che naturalmente ci spinge a considerare la grandezza del nostro Dio, ma che richiede, esige, un risvolto pratico nella nostra quotidianità, nella praticità della vita di ogni giorno del cristiano.
L’obbedienza di Cristo ha un senso in quanto egli era vero uomo. Fu, essendo obbediente fino alla morte, una morte terribile, infamante, riservata ai peggiori criminali, la morte in croce.
Ma all’obbedienza segue la benedizione. Se ci abbasseremo Dio ci innalzerà. “Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, affinché egli v’innalzi al tempo opportuno” (1 Pietro 5:6).
Suo è oggi il nome, l’unico “che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati” (Atti 4:12). Altrove scrive Paolo: “…questa è la parola della fede che noi annunziamo; perché, se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato” (Romani 10:8-9).
Questo è il Nome al di sopra di ogni nome!
Tempo fa feci uno studio statistico sui “nomina sacra” presenti nel Nuovo Testamento. “Dio” compare 1363 volte. “Gesù” 1112 volte, “Cristo” 536 volte e buona parte delle 680 volte che il Nuovo Testamento utilizza la parola “Signore” si riferisce a Cristo. Ho pubblicato un libro sul “Nome di Dio” dove discuto ampiamente del “nome” nella cultura semitica e nell’utilizzo di questo termine nella Bibbia. Sarebbe ingenuo qui supporre che il brano sia letterale, che il Nome cui faccia riferimento qui in Filippesi come in altri del Nuovo Testamento sia effettivamente un “nome”. Il “nome” rende pubblica, estrinseca la qualità della persona che lo possiede, manifesta la sua identità. Quindi qui l’espressione E per questo Dio lo ha esaltato dandogli un nome che è al di sopra di ogni nome.” Va intesa che la Sua gloria sarà manifesta a tutti, evidente per tutti. E un giorno, sempre meno lontano, tutti dovranno confessare che Gesù è Signore.
9E per questo Dio lo ha esaltato, dandogli un nome che è al di sopra di ogni nome. 10Affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto la terra 11e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è Signore alla gloria di Dio Padre.
Un finale dai toni fortemente escatologici che ci conduce al momento in cui tutti, chi volente chi nolente, dovranno piegare il proprio ginocchio davanti a Cristo e confessare, dichiarare che lui è il Signore di tutti.
Voglio concludere questo articolo lasciando la parola a colui che molti ritengono antagonista di Paolo, ma che, invece, nella sua maturità ha saputo mostrare forza e saggezza, che ritroviamo nelle sue due preziose epistole:
“Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché
Dio resiste ai superbi,
ma dà grazia agli umili.
Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti al tempo opportuno”
(1 Pietro 5:6)
INTERLINEARE LETTERALE GRECO – ITALIANO
5
τοῦτο γὰρ φρονείσθω ἐν ὑμῖν
Questo quindi pensiero sia in voi
ὃ καὶ ἐν Χριστῷ ᾿Ιησοῦ,
che anche (fu) in Cristo Gesù,
6
ὃς ἐν μορφῇ Θεοῦ ὑπάρχων
il quale in forma di Dio esistendo
οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο
non considerò come rapina
τὸ εἶναι ἴσα Θεῷ,
l’essere uguale a Dio,
7
ἀλλὰ ἑαυτὸν ἐκένωσεν
ma svuotò se stesso,
μορφὴν δούλου λαβών,
assumendo forma di servo,
ἐν ὁμοιώματι ἀνθρώπων γενόμενος,
divenuto simile agli uomini,
καὶ σχήματι εὑρεθεὶς ὡς ἄνθρωπος,
e per aspetto trovato come uomo,
8
ἐταπείνωσεν ἑαυτὸν
umiliò se stesso,
γενόμενος ὑπήκοος
divenendo obbediente
μέχρι θανάτου,
fino alla morte,
θανάτου δὲ σταυροῦ.
e alla morte di croce.
9
διὸ καὶ ὁ Θεὸς αὐτὸν ὑπερύψωσε
Perciò anche Dio lo esaltò sopra ogni cosa
καὶ ἐχαρίσατο αὐτῷ
e gli donò
ὄνομα τὸ ὑπὲρ πᾶν ὄνομα,
il Nome che è sopra ogni nome,
10
ἵνα ἐν τῷ ὀνόματι ᾿Ιησοῦ
affinché, nel nome di Gesù,
πᾶν γόνυ κάμψῃ
ogni ginocchio si pieghi:
ἐπουρανίων καὶ ἐπιγείων καὶ καταχθονίων,
dei celesti, dei terrestri e degli inferi,
11
καὶ πᾶσα γλῶσσα ἐξομολογήσηται
e ogni lingua confessi:
ὅτι Κύριος ᾿Ιησοῦς Χριστὸς
“Gesù Cristo è Signore!”
εἰς δόξαν Θεοῦ πατρός.
a gloria di Dio, il Padre.
Dio benedica la Sua Parola nei nostri cuori e ci modelli in base ad essa.