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Paolo scrive alla chiesa di Efeso

PAOLO SCRIVE ALLA CHIESA DI EFESO di Giuseppe Guarino

Paolo scrive alla chiesa di Efeso quando si trova prigioniero a Roma. Da lì avverte il bisogno di confermare gli efesini e le altre chiese dell’Asia.

Paolo vide per l’ultima volta i responsabili della chiesa di Efeso quando si trovava a Mileto (Atti 20:17 e seguenti). Non li avrebbe più rivisti e non sarebbe più tornato a Efeso. Questa consapevolezza rende il loro saluto una delle pagine più toccanti della Bibbia.

Quando decide di scrivere alla chiesa di Efeso e a quella di Colosse, città vicine, si trova prigioniero a Roma. Affida i suoi scritti a Tichico che avrà cura di consegnarle ai destinatari. (Efesini 6:21, Colossesi 4:7)

Vi è di solito un motivo se Paolo scrive un’epistola.

Quella ai Colossesi ha chiaramente lo scopo di confutare delle eresie gnostiche o protognostiche. La gnosi è un movimento che darà del filo da torcere alla Chiesa dei primi secoli, con un complesso insegnamento supportato dalla intensa attività di produzione di falsi vangeli – vedi il Vangelo di Giuda, per citare forse il più famoso.

Ma perché Paolo scrive la lettera agli Efesini?

Come in Colossesi, in Efesini troviamo lo stile di Paolo che non confuta in maniera diretta, in contrapposizione, bensì affermando la Verità del Vangelo che smentisce chi vuole in qualche modo “alterarla” o turbarla nelle assemblee dei credenti.

Qual era l’atmosfera religiosa a Efeso?

Da una parte la città è famosa per il culto alla dea Diana ed era infestata da diversi che praticavano arti occulte. Ma Paolo non fa nessun riferimento, entrambe queste problematiche non intaccano la fedeltà della chiesa di Efeso: sono problemi risolti. I credenti efesini sono liberi dall’idolatria e dall’occultismo.

Per capire quale sia il motivo dell’epistola dobbiamo quindi attingere dal testo, leggerlo attentamente. E’ il processo inverso, simile a quando dalla risposta si vuole risalire alla domanda. Qui dai chiarimenti dobbiamo cercare di risalire alle problematiche che richiedevano l’intervento di Paolo.

Quando Paolo arriva a Efeso per la prima volta, entra nella Sinagoga e parla delle cose di Dio (Atti 18:19). Tempo dopo, quando tornerà a Efeso per la seconda volta, deve rinunciare a insegnare nella Sinagoga e stabilire il centro del suo ministero altrove.

In Efeso, quindi, vi era una comunità giudaica, quanto nutrita non si sa, come del resto in tutta l’Asia minore e il mondo di allora. A questa comunità giudaica Paolo si rivolge ancora una volta per prima, ma qui come altrove, l’apostolo non ottiene il consenso sperato.

Per due anni (per bocca di Paolo) … tutti gli abitanti dell’Asia, Giudei e non Giudei (Greci dice il testo originale) udirono la Parola…” (Atti 19:10).

I destinatari dell’epistola agli Efesini sono Gentili, convertitisi dal paganesimo all’Evangelo.  La Nuova Riveduta traduce stranieri piuttosto che Gentili. Una scelta che tenta di rendere in maniera comprensibile un vocabolo che potrebbe sembrare oscuro. Ma ne parleremo meglio nel prossimo articolo.

“Perciò ricordatevi che un tempo voi Gentili (non Giudei) di nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi, perché tali sono stati fatti nella carne per mano d’uomo” (Efesini 2:11).

“Per questa ragione io, Paolo, sono il prigioniero di Cristo Gesù per voi Gentili” (Efesini 3:1).

 

 

Il Vangelo a Efeso

IL VANGELO A EFESO di Giuseppe Guarino

Efeso è una città importante che si trova in Asia Minore, la odierna Turchia. Paolo vi fa una sua prima sosta citata in Atti 18.

Immagine tratta dal libro “Paolo., Apostolo di Cristo” di Antonio Calisi, Infinity Books.

In Atti 18 Paolo si sposta da Atene a Corinto, dove accade qualcosa di importante.  Leggiamo che “ogni sabato” l’apostolo insegnava nella sinagoga” ed è in seguito al netto rifiuto del vangelo da parte del suo popolo che afferma: “da ora in poi andrò ai Gentili” (Atti 18:6).

Dopo aver trascorso oltre un anno e mezzo ad insegnare a Corinto, abbandona quella città portando con sé Aquila e Priscilla. Ed ecco che per la prima volta arriva ad Efeso, dove rimane comunque poco tempo. (Atti 18:19). Lascia qui Aquila e Priscilla. Il seme della chiesa di Efeso è gettato.

Il primo frutto sembra Apollo, istruito sulla via di Dio proprio dai due fedeli compagni di viaggio dell’apostolo. (Atti 18:24-28).

Paolo torna ad Efeso e vi rimane per oltre due anni (Atti 19: 1, 10).

Durante questo importante periodo l’apostolo insegna con ogni libertà ai Giudei e ai Greci. Questo dettaglio, questa distinzione – come se vi fossero due categorie di credenti – è molto importante e sta alla base di una corretta comprensione del linguaggio dell’epistola agli Efesini. “Per due anni (per bocca di Paolo) … tutti gli abitanti dell’Asia, Giudei e non Giudei (Greci) udirono la Parola” (Atti 19:10)

Trascorsi i due anni, Paolo si reca in Macedonia e visita altre città. Si trova a Mileto (Atti 20:17) quando fa chiamare gli anziani della chiesa di Efeso per parlargli. La chiesa in Efeso è ormai fondata sulla Parola, insegnata per anni dall’apostolo, i suoi ministri sono fedeli, istruiti, e possono  continuare l’opera apostolica. (Atti 20:18-21)

Eppure circa trent’anni dopo il Signore contesta questo alla chiesa di Efeso: ” Ma io ho questo contro di te: che hai lasciato il tuo primo amore” (Apocalisse 2:4). C’è veramente da riflettere su questo “scadere” di una chiesa così importante e alla quale l’apostolo scriveva senza avere nulla da rimproverare. Un monito per ognuno, a livello individuale e confessionale.

Cronologia delle epistole di Paolo

CRONOLOGIA DELLE EPISTOLE DI PAOLO di Giuseppe Guarino

L’esigenza di trovare un ordine cronologico alle epistole dell’apostolo Paolo, sorge spontaneo insieme ad una intenzione di un serio studio delle stesse, ma si rivela utile anche qualora le si voglia leggere nell’ordine di composizione. Infatti le tredici lettere di Paolo, quattordici se includiamo l’epistola agli Ebrei, così come le ritroviamo nelle edizioni che comunemente utilizziamo del Nuovo Testamento, non sono ordinate per data di composizione o qualsivoglia altro criterio rintracciabile. E’ spontaneo quindi cercare di trovare una collocazione delle stesse lettere all’interno dell’attività dell’apostolo come riportata nel libro degli Atti degli Apostoli e provare a datarle.

Questo post intende fornire una possibile cronologia degli scritti di Paolo. Nessuna presunzione di esattezza matematica, ma una possibile ricostruzione che possa aiutare il lettore ad orientarsi.

Gli eventi principali della vita di Paolo

Atti 9 36 d.C. Conversione di Paolo
Galati 1:16-17 Sale a Damasco
Si reca in Arabia
Torna a Damasco
Atti 9:9

Galati 1:18

38 Prima visita di Paolo a Gerusalemme
Atti 11:30 Seconda visita di Paolo a Gerusalemme
Atti 13-14

Galati 1:21-24

Primo viaggio missionario
Atti 15

Galati 2

51 Terza visita di Paolo a Gerusalemme
Atti 16:1-18:22 51-54 Secondo viaggio missionario
Atti 18:23-21:17 54-58 Terzo viaggio missionario
Atti 21-28 58-62 Prigionia di Paolo

La cronologia delle epistole.

Al periodo del secondo viaggio missionario possiamo far risalire le epistole 1 e 2 Tessalonicesi. Queste sono le prime scritte da Paolo.

Durante il terzo viaggio missionario, fra il 57 e il 58 d.C., scrisse 1 Corinzi, da Efeso, 2 Corinzi e Galati, dalla Macedonia, e Romani, da Corinto.

Al periodo della prigionia a Roma vanno ascritte Filippesi, Efesini, Colossesi e Filemone.

Visto il silenzio su quanto avvenuto dopo l’imprigionamento di Paolo a Roma descritto in Atti 28, non è certo se 1 TimoteoTito 2 Timoteo, siano state scritte durante questo imprigionamento o durante l’ipotetica liberazione che molti suppongono abbia preceduto un secondo imprigionamento e la condanna a morte. Ad ogni modo, nell’ordine in cui le ho menzionate, queste sono state le ultime epistole di Paolo.

 

1 Tessalonicesi.

Venne scritta durante il soggiorno di Paolo a Corinto, come si comprende mettendo a raffronto Atti 18:5 con 1 Tessalonicesi 3:6.

I dati cronologici ricordati da Paolo sono facilmente inseribili nella cronologia del libro degli Atti.

In Atti 17 Paolo fonda la chiesa di Tessalonica, Atti 17:1-4. A seguito di persecuzioni da parte dei giudei del posto, fugge a Berea, Atti 17:5-12. Quindi ancora raggiunto dai persecutori di Tessalonica, passa ad Atene, Atti 17:13-15.

Da Atene (il soggiorno in questa città è descritto in Atti 17:16-34) Paolo manda Sila e Timoteo a vedere il benestare dei Tessalonicesi.

Qui si introduce il discorso di 1 Tessalonicesi 3:1-5. Timoteo torna da Paolo quando questi si trova già a Corinto. 1 Tessalonicesi 3:6. Atti 18:1-5.

L’anno di composizione di 1 Tessalonicesi è quindi il 52 d.C.

1 Corinzi

Fu scritta da Efeso, durante il soggiorno dell’apostolo descritto in Atti 19. E’ lo stesso Paolo a specificarlo: “…Ma mi fermerò in Efeso fino alla Pentecoste” ( 1 Corinzi 16:8)

La lettera risale quindi alla primavera dell’anno 57 d.C.

Galati

Alcuni fanno precedere le epistole ai Corinzi da quella ai Galati. Altri rimuovono addirittura quest’ultima epistola da questa collocazione e sostengono questa essere la prima opera di Paolo e risalente addirittura al 48 d.C.

Per sostenere una datazione tanto antecedente, bisogna considerare errata la sequenza di eventi che abbiamo descritto sopra. L’incontro cui si fa riferimento in Galati 2:1 e segg. non sarebbe quindi avvenuto nella stessa occasione che ha portato alla conferenza di Gerusalemme di Atti 15. Sarebbe invece da considerarsi avvenuto durante la seconda visita a Gerusalemme di Paolo, descritta in Atti 11:30. Ancora, bisogna anche considerare come Galazia la regione che Paolo aveva visitato durante il suo primo viaggio missionario, Atti 13:14 e segg., e non la provincia romana sita molto più a nord raggiunta durante il secondo viaggio Atti 16:6.

E’ improbabile che entrambe le condizioni citate per una datazione tanto anteriore siano possibili.

Tutto sembra deporre a favore d’una datazione più tarda. La seconda visita a Gerusalemme di Paolo aveva una motivazione molto particolare e non si concilia con la sua affermazione di Galati 2:1, dove dice che saliva a Gerusalemme “in seguito ad una privata rivelazione”. Quest’ultima può invece inserirsi in Atti 15:1-2, come conferma della decisione specifica presa dalla chiesa di Antiochia per risolvere la questione dei Gentili, tema anche di Galati.

La presa di posizione pubblica di Paolo nei confronti di Pietro descritta in Galati può essere giustificata solo se seguente alla decisione degli apostoli di Atti 15.

E’ poi più naturale che per Galazia, Paolo intendesse la regione denominata apertamente in questa maniera nelle narrazioni degli Atti 16:6 e segg. E ancora, il primo viaggio missionario mi sembra venga nominato già prima della conferenza di Gerusalemme, saltando il secondo viaggio a Gerusalemme. Confrontando Galati 1:21 con Atti 15:41 l’attinenza mi sembra evidente.

Una datazione che collochi Galati fra 2 Corinzi e Romani non può sostenersi in maniera assoluta, sebbene io la proponga perché convinto dalla accuratezza della presentazione della tesi dal grande studioso del XIX secolo Lightfoot. Se però è accettabile, come fanno alcuni, porre Galati prima di 1 Corinzi, non sembra accettabile considerarla la prima epistola paolina.

Filippesi, Efesini, Colossesi e Filemone

Non possiamo essere dogmatici sulla sistemazione che vede la composizione di Filippesi come antecedente quella di Efesini, Colossesi e Filemone, ma per certo queste ultime tre hanno viaggiato insieme e, quindi, sono state scritte nello stessa circostanza, durante la prigionia dell’apostolo a Roma.

Il punto di connessione fra le tre lo ricaviamo dalle chiuse delle tre lettere in questione.

In Efesini 6:21-22 Paolo nomina Tichico.

In Colossesi 4:7-9 leggiamo: “…Tutte le mie cose ve le farà sapere Tichico, il caro fratello e fedel ministro…e con lui ho mandato Onesimo, che è dei vostri…”

La lettera a Filemone viaggia chiaramente con Onesimo: “…Onesimo…io te l’ho rimandato”, v.11

E’ chiaro quindi che Tichico e Onesimo viaggiavano insieme, portando alle chiese le epistole agli Efesini e ai Colossesi, nonché la lettera personale per Filemone.

 

Le epistole di Paolo in ordine cronologico

Durante il secondo viaggio – Atti 16:1-18:22
1 Tessalonicesi 52 d.C. da Corinto
2 Tessalonicesi
Durante il terzo viaggio – Atti 18:23
1 Corinzi Primavera

57 d.C.

da Efeso
2 Corinzi Autunno

57 d.C.

Dalla Macedonia
Galati Autunno

58 d.C.

Dalla Macedonia
Romani 58 d.C. Da Corinto
Durante la prigionia a Roma – Atti 28:11-31
Filippesi
Efesini
Colossesi
Filemone
Durante la prigionia o la seguente possibile liberazione
1 Timoteo
Tito
2 Timoteo

Collocazione delle epistole all’interno dell’opera missionaria

Atti 9 36 d.C. Conversione di Paolo
Galati 1:16-17 Sale a Damasco
Si reca in Arabia
Torna a Damasco
Atti 9:26 – Galati 1:18 38 Prima visita di Paolo a Gerusalemme
Atti 11:30 Seconda visita di Paolo a Gerusalemme
Atti 13-14 – Galati 1:21-24 primo viaggio missionario
Atti 15 – Galati 2 51 Terza visita di Paolo a Gerusalemme
Atti 16:1-18:22 51-54 secondo viaggio missionario
1 Tessalonicesi
2 Tessalonicesi
Atti 18:23-21:17 54-58 terzo viaggio missionario
1 Corinzi
2 Corinzi
Galati
Romani
Atti 21-28 58-62 Prigionia di Paolo
Filippesi
Efesini
Colossesi
Filemone
1 Timoteo
Tito
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sei sei sei il numero della bestia

di Giuseppe Guarino

Purtroppo credo si renda davvero necessario un commento sulla immotivata diffusione di un’isteria che riguarda il cosiddetto numero della Bestia, il sei, sei, sei.

Negli anni ottanta gli Iron Maiden cantavano: “six, six, six the number of the Beast”. Facevano eco i Litfiba nel loro brano “El Diablo”. Tanti altri esempi sono disponibili dell’uso di questo numero, che gode di una certa popolarità nel mondo dell’occulto.

In effetti la simbologia di Piero Pelù e compagni è piuttosto echeggiante il testo biblico. Ma non è del tutto accurata.

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Della bevanda Monster si è detto che essa pubblicizza il “sei, sei, sei” in quanto il logo – le tre emme – ricordano molto la lettera waw dell’alfabeto ebraico che ha valenza numerica “6”.

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Anche nel codice a barre alcuni vedono – e forse sarà pure stato messo lì intenzionalmente – la triplice ripetizione del numero sei, rappresentato graficamente dalle tre segmenti, all’inizio al centro e alla fine del codice a barre, che indicano proprio il numero 6.

Ora siamo all’identificazione del 666 nei vaccini.

Poi c’è chi vede il sei, sei, sei nella www del world wide web, cioè internet.

Nel passato il 666 è stato visto nei nomi di re, papi, ecc.

Leggiamo cosa dice la Bibbia su questo “numero”. Vi chiedo un po’ di pazienza, perché è facile dire una cosa, buttarla lì sul web con una bella immagine. Tutt’altra cosa è invece analizzare la questione con serietà e fedele aderenza al testo biblico.

Leggiamo Apocalisse 13

1 Poi vidi salire dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi e sulle teste nomi blasfemi.
2 La bestia che io vidi era simile a un leopardo, i suoi piedi erano come quelli dell’orso e la sua bocca come quella del leone. Il dragone le diede la sua potenza, il suo trono e una grande autorità. 

Per capire cosa indica qui il testo per “bestia” ci basta leggere il capitolo 7 di Daniele. Invito il lettore a farlo.  Può seguire questo link se vuole leggerlo subito La Sacra Bibbia – Daniele 7 (Nuova Riveduta) (laparola.net)

Siamo davanti ad un sistema politico, un regno, una nazione, una forma organizzata di vivere civile che, trattandosi di una profezia ancora non avveratasi non possiamo allo stato attuale meglio definire. Potrebbe essere, come alcuni sostengono – e come anche io sono propenso a pensare – una confederazione di stati. Ciò a motivo della descrizione che si dà di questa potenza mondiale che farà la sua comparsa poco prima del ritorno di Cristo nello stesso libro di Daniele, 2:43, “…  Come hai visto il ferro mescolato con la molle argilla, essi si mescoleranno per seme umano, ma non si uniranno l’uno all’altro, esattamente come il ferro non si amalgama con l’argilla.

Il Dragone che dà potenza a questo regno, è detto poco prima, in Apocalisse 12:9.

3 Una delle sue teste sembrò ferita a morte, ma la sua piaga mortale fu guarita; e tutta la terra, meravigliata, andò dietro alla bestia. 4 E adorarono il dragone perché aveva dato il potere alla bestia; e adorarono la bestia dicendo: «Chi è simile alla bestia? e chi può combattere contro di lei?» 5 E le fu data una bocca che proferiva parole arroganti e bestemmie. E le fu dato potere di agire per quarantadue mesi. 6 Essa aprì la bocca per bestemmiare contro Dio, per bestemmiare il suo nome, il suo tabernacolo e quelli che abitano nel cielo. 7 Le fu dato di far guerra ai santi e di vincerli, e le fu dato di avere autorità sopra ogni tribù, popolo, lingua e nazione. 8 L’adoreranno tutti gli abitanti della terra il cui nome non è scritto fin dalla fondazione del mondo nel libro della vita dell’Agnello che è stato immolato.
9 Se uno ha orecchi, ascolti. 10 Se uno deve andare in prigionia, andrà in prigionia; se uno deve essere ucciso con la spada, bisogna che sia ucciso con la spada. Qui sta la costanza e la fede dei santi.

Qui possiamo solo leggere ciò che è scritto e che riguarda coloro che vivranno i giorni in cui questa terribile potenza mondiale apparirà sulla scena, costoro riconosceranno bene l’avverarsi di questa profezia.

Il senso per il quale il Signore ci rivela queste cose è perché noi sappiamo che Egli ha comunque il controllo e la Sua vittoria finale sul male è certa.

11 Poi vidi un’altra bestia, che saliva dalla terra, e aveva due corna simili a quelle di un agnello, ma parlava come un dragone.
12 Essa esercitava tutto il potere della prima bestia in sua presenza, e faceva sì che tutti gli abitanti della terra adorassero la prima bestia, la cui piaga mortale era stata guarita. 13 E operava grandi segni miracolosi sino a far scendere fuoco dal cielo sulla terra in presenza degli uomini. 14 E seduceva gli abitanti della terra con i segni miracolosi che le fu concesso di fare in presenza della bestia, dicendo agli abitanti della terra di erigere un’immagine della bestia che aveva ricevuto la ferita della spada ed era tornata in vita. 15 Le fu concesso di dare uno spirito all’immagine della bestia affinché l’immagine potesse parlare e far uccidere tutti quelli che non adorassero l’immagine della bestia.

Ecco una seconda bestia. Sembra che la prima, un potere secolare, venga affiancata da una seconda, religiosa. Parla come l’agnello perché evidentemente imita il Cristo, ma parla il linguaggio del diavolo.

16 Inoltre obbligò tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, a farsi mettere un marchio sulla mano destra o sulla fronte. 17 Nessuno poteva comprare o vendere se non portava il marchio, cioè il nome della bestia o il numero che corrisponde al suo nome.
18 Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza, calcoli il numero della bestia, perché è un numero d’uomo; e il suo numero è seicentosessantasei.

In un qualche modo è questa seconda bestia che obbliga gli uomini a prendere un marchio, che sta sulla mano destra o sulla fronte.  Quindi, allo stadio attuale, vi è ben poca attinenza, nessuna a dire il vero, fra l’inoculazione di un vaccino e un marchio che dovrebbe stare sulla mano o sulla fronte. “Sulla”, cioè “sopra”.

Questo marchio è sia il nome stesso della bestia, sia il numero che corrisponde al suo nome.

Nella lingua ebraica ogni lettera dell’alfabeto aveva una valenza numerica. Oggi non è più così. E’ stato quindi tentato in ogni modo di trovare la valenza numerica di questo o quel personaggio storico o del momento che sia particolarmente scomodo, o che sia pure un “anticristo”, perché vi sono stati e vi saranno sempre “anticristi” cioè nemici di Cristo. Nerone, Hitler, ecc. L’ultima che ho letto è quella che identifica il 666 con il nome di papa Bergoglio. Non mi piace particolarmente come personaggio, ma biblicamente questo tipo di identificazione, sempre allo stato attuale, lascia il tempo che trova.

Nessuna delle circostanze che il brano descrive così chiaramente sono riscontrabili in eventi storici passati o attuali. Nonostante le varie restrizioni di vari momenti storici e quelle attualmente in essere in Europa, e in particolare in Italia, non abbiamo un avverarsi della profezia di Apocalisse 13.

Un ultimo dettaglio importante è che il numero della bestia non è la triplice ripetizione del numero sei, bensì seicentosessantasei, che nella nostra lingua si scrive 666, ma che, nella lingua originale dell’Apocalisse, il greco, si scrive χξς, ovvero εξακοσια εξηκοντα εξ. Probabilmente un po’ meno attraente e suggestiva della nostra tripla ripetizione numerica, assente in lingua greca. In ebraico forse anche meno (שש מאות וששים ושש) ma non abbiamo un originale ebraico del testo dell’Apocalisse e dobbiamo fare quindi affidamento sul testo greco.

Mi auguro che questo breve articolo contribuisca a marchiare come forzature inaccettabili le interpretazioni che vogliono individuare nei vaccini il cosiddetto “marchio della bestia”. Allo stesso modo, e lo ripeto, allo stato attuale, non abbiamo modo di ritenere che nemmeno i tanto temuti microchip sottocutanei possano riferirsi all’avverarsi delle profezie sull’Anticristo o altre fantomatiche nuove tecnologie nanobotiche.

Se leggiamo con sobrietà il testo dell’Apocalisse ciò ci sembrerà oltremodo chiaro.

Ps. Evitiamo di far ridicolizzare la Parola di Dio, ma opponiamo una sobria e attenta lettura del testo biblico.

 




Profezie bibliche, profezie autentiche

“Profezie bibliche, profezie autentiche” di Giuseppe Guarino. Un’apologia dell’affidabilità delle profezie messianiche che troviamo nella Bibbia.

“I pazzi si sono impadroniti del manicomio” fu detto quando venne fondata la United Artists. Qualcosa di simile si potrebbe dire per certe aree di studi biblici. Gli increduli una volta stavano al di fuori della Chiesa e attaccavano la Verità apertamente, oggi invece stanno all’interno della Chiesa (visibile) e mascherano l’incredulità da spirito scientifico e ricerca obiettiva. Un tempo erano coloro che stavano al di fuori della Chiesa che non credevano nell’ispirazione delle Sacre Scritture, oggi chi si fregia di titoli accademici la denigra di fatto con lo scarso rispetto che mostra per i suoi contenuti.

La datazione dei Vangeli è un particolare importante. Prima di intraprenderne uno studio serio, bisogna averne una qualche idea. Vi è un nutrito coro di studiosi che non ritiene possibile che i Vangeli siano stati composti prima del 70 d.C., anno in cui i romani entrarono a Gerusalemme e la distrussero – evento ricordato a Roma dal famoso Arco di Tito.

Uno tra i principali motivi contro una datazione antecedente il 70 d.C. è la profezia che fa Gesù nei vangeli circa la distruzione di Gerusalemme. Infatti, per alcuni è impossibile che Gesù abbia predetto il futuro. Quindi i vangeli, secondo loro, sarebbero stati scritti dopo che il tempio è stato distrutto e gli evangelisti metterebbero in bocca a Gesù questa profezia per dare credito alla sua persona ed agli stessi vangeli.

Certe teorie mirano a distruggere la credibilità delle Sacre Scritture. Lo facessero con cognizione di causa … ma nemmeno quello. E alla luce di una conoscenza maggiore e di un esame anche soltanto un po’ più attento delle evidenze storiche e bibliche, le false accuse si sciolgono come neve al sole.

Vediamo cosa dice Gesù circa la caduta di Gerusalemme.

Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali; e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa sta per esservi lasciata [deserta].” (Matteo 23:37-38)

Mentre Gesù usciva dal tempio e se ne andava, i suoi discepoli gli si avvicinarono per fargli osservare gli edifici del tempio. Ma egli rispose loro: “Vedete tutte queste cose? Io vi dico in verità: Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sia diroccata“. (Matteo 24:1-2)

Facciamo una semplice considerazione: se non si può prevedere il futuro, se non esistono – e quindi nemmeno nella Bibbia possono esistere – autentiche profezie, la Bibbia qui racconta delle fandonie belle e buone, le parole messe in bocca a Gesù sono false. Ma se riusciamo a dimostrare che la Bibbia inequivocabilmente ha profetizzato anche una sola volta, allora è potenzialmente possibile che ciò accada.

Vi è una profezia biblica che io ritengo indiscutibile, inattaccabile, vera ed avveratasi al di là di ogni possibile tentativo di produrre una qualche prova contraria: la distruzione del tempio e della città di Gerusalemme prevista dal libro del profeta Daniele.

Al tramonto del settimo secolo a.C. un ragazzino venne deportato alla corte del re babilonese Nabucodonosor. Si chiamava Daniele. Quando egli fu più in là negli anni fu depositario di un messaggio profetico importantissimo.

“9:24 Settanta settimane sono stabilite per il tuo popolo e per la tua santa città, per far cessare la trasgressione, per mettere fine al peccato, per espiare l’iniquità, per far venire una giustizia eterna, per sigillare visione e profezia e per ungere il luogo santissimo. 9:25 Sappi perciò e intendi che da quando è uscito l’ordine di restaurare e ricostruire Gerusalemme fino al Messia, il principe, vi saranno sette settimane e altre sessantadue settimane; essa sarà nuovamente ricostruita con piazza e fossato, ma in tempi angosciosi. 9:26 Dopo le sessantadue settimane il Messia sarà messo a morte e nessuno sarà per lui. E il popolo di un capo che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine verrà con un’inondazione, e fino al termine della guerra sono decretate devastazioni. 9:27 Egli stipulerà pure un patto con molti per una settimana, ma nel mezzo della settimana farà cessare sacrificio e oblazione; e sulle ali delle abominazioni verrà un devastatore, finché la totale distruzione, che è decretata, sarà riversata sul devastatore”. (Daniele 9:24-27)

Questa profezia venne data a Daniele nel VI secolo a.C. in un momento in cui la città di Gerusalemme era in rovine, così come il suo tempio ed il popolo era stato deportato in massa in Babilonia. La traduzione “settanta settimane” è un po’ infelice. Forse “settanta settenari” avrebbe reso più l’idea, sebbene possa essere meno letterale. Questa espressione comunque è tipicamente ebraica e corrisponde inequivocabilmente a 490 anni.

“L’ordine di restaurare e ricostruire Gerusalemme” fu emesso dal re persiano Artaserse. L’anno era il 445 a.C.  Non intendo mettermi qui a fare conti matematici, perché lo scopo di questa mia discussione è diverso. Diciamo che la profezia ci annuncia che da un certo editto che autorizzava la ricostruzione di Gerusalemme fino alla comparsa del Messia, trascorreranno un certo numero di anni. Ci importa qualcosa di inequivocabile qui, non discussioni complesse che ci facciano perdere il punto più importante di questa rivelazione divina.

La profezia ci rivela tre dettagli fondamentali che provano che Gesù di Nazaret era il Messia promesso.

  1. Il Messia appare dopo un lungo periodo seguente la ricostruzione di Gerusalemme avvenuta sotto il patrocinio dei persiani.
  2. Il Messia viene messo a morte.
  3. La città ed il tempio vengono distrutti.

Si tratta di una serie di eventi che si sono perfettamente avverati nel periodo previsto dalla profezia, nella persona di Gesù di Nazaret. Il tempio e la città di Gerusalemme sono stati distrutti insieme – non uno o l’altro, ma insieme – nel 70 d.C., a meno di una generazione (40 anni) dalla morte del Messia.

Questa profezia si è esattamente avverata e non potrà avverarsi per nessun altro individuo che non sia Gesù di Nazaret.

Insieme a questa tantissime altri brani della Sacra Scrittura hanno anticipato la persona del Cristo e la sua missione, la sua morte, la sua resurrezione, il suo ritorno. Allo stesso modo in cui si sono già avverate queste profezie, si avvereranno le molte nella Bibbia che riguardano ancora il futuro, il glorioso ritorno del Signore Gesù e l’avvento del regno di Dio su questa terra. Erano quest’ultimi i temi della domanda posta dai discepoli a Gesù ed è a questa domanda che il Signore risponde in Matteo 24 e seguenti. Spesso le critiche mosse contro la Bibbia vengono da chi nemmeno riesce a comprenderne correttamente il testo, ma ne odia il contenuto a priori.

Matteo così come tutti gli altri Vangeli, forse tranne Giovanni, sono stati scritti prima della caduta di Gerusalemme. La profezia di Matteo 24 e seguenti non si riferisce alla caduta della città bensì agli eventi che avranno luogo immediatamente prima il ritorno di Gesù: l’intera impalcatura della profezia post-eventum crolla!

Al contrario la Parola di Dio ha previsto in dettaglio l’arrivo del Messia, la sua reiezione, la sua morte e la seguente distruzione di città e tempio. I vangeli sono resoconti autentici, di testimoni oculari o di chi ha diligentemente raccolto i resoconti di testimoni oculari. La Bibbia è la Parola di Dio. Se confutiamo questi fatti, è meglio che ci assicuriamo di farlo correttamente, perché forse la posta in gioco è più importante di una semplice convinzione intellettuale: il nostro destino eterno.

In principio… Giovanni 1:1-18

di Giuseppe Guarino

Scarica qui il pdf dell’articolo  In principio… Gv 1,1-18

Non è facile tradurre. Bisogna valutare molte cose prima di stabilire che metodo adottare, valutando i destinatari del proprio lavoro, innanzi tutto e poi se si tratta di un testo che andrà ad essere utilizzato per la semplice lettura o per lo studio.

Il mio nuovo libro “IN PRINCIPIO…” è uno studio sul prologo di Giovanni. Ecco la versione che proporrò – soggetta ancora ad essere rivista. Ho tradotto cercando di far comprendere al lettore italiano del XXI secolo le sfumature del testo greco e del sostrato ebraico. Cosa non facile e che può anche esporre a critiche, dovendo qua e là fare delle scelte che vanno oltre la letteralità del testo. In particolare, è noto l’uso della congiunzione “e” in ebraico, che ha un senso molto più ampio della nostra semplice congiunzione. Il testo greco risente di questo semitismo. Nella nostra lingua non iniziamo mai delle frasi con “e”, ma in ebraico questa è una consuetudine. Noi preferiamo alternare “quindi”, “allora”, “comunque”, ecc. La “e” compare circa 17 volte in 18 versi. Si tratta di un uso che in italiano non ha paralleli. Se invece apriamo il libro della Genesi in ebraico, o anche nelle sue traduzioni letterali, troveremo la “e” all’inizio di quasi ogni frase. Questo ho cercato di smussarlo nella traduzione. Altri dettagli li discuto di seguito, dopo la traduzione.

GIOVANNI 1:1-18.

“In principio era Colui che è la Parola

Egli era con Dio

ed era Dio.

Egli era in principio con Dio.

Tutto è stato creato tramite Lui e senza Lui nulla sarebbe venuto all’esistenza di ciò che è stato creato.

In Lui era la Vita e la Vita era la luce degli uomini.

La luce splende nelle tenebre perché le tenebre non la possono sopraffare.

Vi fu un uomo, mandato da Dio, il cui nome era Giovanni. Egli venne per testimoniare della Luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui.

Egli non era la Luce, ma era stato inviato affinché testimoniasse della Luce.

Colui che è la Luce vera, che illumina tutti gli uomini che vengono al mondo, era.

Era nel mondo,

il mondo è stato creato per mezzo di Lui,

ma il mondo non lo ha conosciuto.

Venne quindi ai suoi,

ma i suoi non l’hanno ricevuto.

Ma a coloro che l’hanno ricevuto, i quali credono nel suo nome, Egli ha dato l’autorità di essere figli di Dio. Costoro non da sangue, né per volontà della carne, né per volontà d’uomo, ma sono generati da Dio.

Colui che è la Parola si è incarnato ed ha dimorato fra noi. Noi abbiamo osservato la Sua gloria, quella dell’Unigenito dal Padre, pieno di grazia e verità.

Giovanni ha testimoniato di Lui gridando: “Egli è colui del quale io vi dissi: ‘Colui che viene dopo di me, ma ha la precedenza su di me, perché era prima di me’”.

Tutti abbiamo ricevuto dalla sua Pienezza, grazia su grazia. Perché la Legge è stata data tramite Mosè, ma la Grazia e la Verità per mezzo di Gesù Cristo.

Dio non lo ha visto mai nessuno. Il Figlio unigenito che è nel seno del Padre (è la Parola che) lo ha rivelato”.

 

Discuto brevemente delle mie scelte, in maniera da poter raccogliere qualche commento che mi aiuti nella stesura del mio libro, per rendere un servizio migliore al corpo di Cristo.

 

Ho tradotto: Colui che è la Parola

Il problema che incontra ogni traduttore nella versione della parola greca logos, è che essa è al maschile in greco, ma al femminile in italiano. Il problema nasce dal fatto che poi, per conseguenza, passare al pronome soggetto maschile usato nelle frasi che seguono riferite al logos crea un errore grammaticale in italiano, anche se il brano è troppo noto per mandare fuori strada il lettore. Buona la soluzione della Nuova Diodati, che cerca di aggirare l’ostacolo. Io ho preferito sfruttare l’occasione portami dalla presenza dell’articolo davanti a logos, ho, ed ho tradotto Colui (ho) che è (sottinteso) la Parola (logos).

 

Ho tradotto: Tutto è stato creato tramite Lui

Sembra interessare poco gli autori biblici di incorrere in ripetizioni, che invece suonano piuttosto male nella nostra lingua. Ho alternato “tramite” a “per mezzo di” proprio per evitare una ripetizione.

 

Ho tradotto: La luce splende nelle tenebre perché le tenebre non la possono sopraffare.

Qui ho osato dare un significato tutto semitico ad “e”, traducendo con “perché”. Credo che ci possa stare.

 

Ho tradotto: ma era stato inviato affinché…

Ho cercato di mettere in grassetto le parole che palesemente non vi sono nel testo originale ma che possono chiarire il senso di una frase nella nostra lingua.

 

Ho tradotto: ma il mondo non lo ha conosciuto.

Vorrei trovare un verbo o una espressione più adatta che semplicemente “conosciuto”, che è la traduzione letterale del verbo, ma non trasmette l’idea dell’originale. Vi è infatti in greco più di un modo per esprimere il “conoscere”. Giovanni stesso è molto attento nei suoi scritti ad usare l’uno o l’altro termine disponibile in greco. Mi ripropongo di valutare se posso utilizzare un altro vocabolo senza passare dalla traduzione alla parafrasi del testo.

 

Ho tradotto: Venne quindi ai suoi

Ho cercato di evidenziare ulteriormente un crescendo che mi sembra evidente.

 

Ho tradotto: non da sangue, né per volontà della carne, né per volontà d’uomo

Credo che queste espressioni siano intrise di cultura ebraica, e mirano a togliere ogni dubbio che solo Dio può fare di noi dei figli di Dio: “non si eredita, non è per appartenenza, né perché lo decide un uomo”, è questo il senso delle parole di Giovanni – ma mi discosterò così tanto dal testo solo nelle note, per non scadere, come ho detto prima, in una parafrasi del testo.

 

Ho tradotto: Colui che è la Parola si è incarnato ed ha dimorato fra noi

Menomale che in italiano esiste il verbo “incarnarsi” che può rendere in maniera meno oscura il letterale “si è fatto carne”. Anche qui ho tradotto ho logos con “colui che è la Parola”.

 

Ho tradotto: Il Figlio Unigenito che è nel seno del Padre (è la Parola che) lo ha rivelato

Come ho ampiamente giustificato nelle mie varie pubblicazioni, prediligo senza remore il testo Maggioritario. Qui esso si traduce con grande semplicità “Figlio Unigenito”. Non invidio i sostenitori del testo alternativo – ne esistono un paio di versioni, con e senza articoli – che, a mio avviso, non ha senso ed è solo una corruzione gnostica del testo originale.

Aggiungo “è la Parola che” prima di “lo ha rivelato” perché non so trovare un termine che traduca il greco senza fare perdere il senso della frase. Esso infatti letteralmente corrisponde a “dichiarato”, si tratta di una rivelazione verbale, perché fa riferimento alla “Parola” iniziale, al logos, che, appunto, rivela Dio, lo rende visibile e comprensibile.

 

Nel libro proporrò anche una traduzione interlineare ultra letterale, con note testuali e approfondimenti sulle parole in greco.

 

 

 

Genesi 1:26

di Giuseppe Guarino

versione pdf dell’articolo per una migliore lettura dei termini in originale greco ed ebraico

Giuseppe Guarino Genesi 1,26 www.giuseppeguarino.com

 

“Poi Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza, e abbia dominio sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina”. 

Vi sono varie teorie su quel plurale iniziale, quel “facciamo”, davvero di oggettiva difficile comprensione. Secondo alcuni si tratta di una forma di plurale maiestatis. Secondo altri, Dio si rivolge agli angeli. Per chi crede nella deità del Figlio di Dio, eterno creatore con il Padre e lo Spirito Santo, questa espressione è un’ulteriore prova della presenza dell’uno/tre al momento della creazione.

Ma Mosè, o, in ultima analisi, l’autore del libro della Genesi, poteva immaginare e descrivere un’idea tanto complessa e certamente a lui aliena?

Questo dipende da quanto consideriamo determinante l’ispirazione del testo biblico.

Andiamo a vedere Genesi 1:1,

“In principio Dio creò il cielo e la terra”.

In ebraico

בראשׁית ברא אלהים את השׁמים ואת הארץ׃

Le peculiarità numeriche del primo verso della Bibbia hanno colpito più di una persona.

Il verso contiene 7 parole e 28 lettere. 28= 7 x 4

Le prime tre parole sommano 14 lettere= 7 x 2

Le seconde quattro sommano anch’esse 14 lettere= 7 x 2

Le prime tre parole (3=perfezione) sono in se stesse complete: il quando, l’azione ed il soggetto. Le 4 parole che seguono sono il cosa, introdotto dalla parola ebraica intraducibile, את, che precede il complemento oggetto.

3 è il numero di Dio (Santo, Santo, Santo, se non vogliamo menzionare la sua trinità) e 4 è il numero della terra (i 4 canti della terra citati più volte, ecc.). Il primo verso narra anche numericamente della perfezione di Dio e della creazione della terra.

Possiamo immaginare che l’autore di Genesi si sia personalmente scervellato per riuscire ad ottenere un risultato tanto matematicamente perfetto e significativo per veicolare il pensiero di Dio?

Ivan Panin è famoso per essersi convertito dall’agnosticismo alla fede nella Bibbia come Parola di Dio ispirata, proprio perché ne ha scoperto la perfezione matematica nella ricorrenza del numero 7 in maniera davvero soprannaturale, tanto nel testo ebraico dell’Antico Testamento quanto in quello greco del Nuovo.

Qualcosa di simile è avvenuta a studiosi di altre materie. C’è chi indagando sull’inattendibilità dei vangeli, alla fine ha scoperto che la verità è invece che sono dei resoconti di prima mano ed autentici.

Anche scientificamente, in base a quanto sappiamo oggi ovviamente, la Bibbia si mostra corretta in dettagli impensati.

Amo molto la storia antica, e mi ha sorpreso scoprire quanto la Bibbia sia accurata dal punto di vista storico. In realtà non ho problemi ad affermare che essa è il documento storico più antico ed attendibile che possediamo. Maggiore è stato il numero di ritrovamenti archeologici, maggiore è stata la conferma dell’accuratezza storica della Bibbia.

Davanti a questi dati, sebbene riconosciamo anche la valenza dell’elemento umano, non possiamo non riconoscere il sigillo dell’ispirazione divina delle Sacre Scritture.

Restando in Genesi, e volendo ribadire che l’ispirazione permette di superare alcuni vincoli legati all’umanità dell’autore sacro, consideriamo il cosiddetto protovangelo:

“Io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la progenie di lei; questa progenie ti schiaccerà il capo e tu le ferirai il calcagno” (Genesi 3:15).

È opinione radicata nella Chiesa, che questo brano si riferisca alla morte del Signore Gesù ed al suo trionfo su Satana con la sua meravigliosa resurrezione.

Difficile pensare che qui l’ispirazione divina non abbia prevalso sull’elemento umano. A meno che Dio non abbia dato a Mosè una specifica rivelazione che spiegava il senso delle parole di questo verso.

In altri punti, Mosè dice più di ciò che potrebbe intendersi da una lettura superficiale. Egli scrive in più punti, ed in maniera tanto significativa che non può intendersi casuale: “Dio disse”. Vedi Genesi 1:3, 6, 11, 14, 20, 24.

“Dio disse” al v. 26 è la settima occorrenza di questa espressione.

Quello che poi scriverà Giovanni nel suo Vangelo era già stato intuito ed espresso dai commentatori ebraici.

“In principio era la Parola… per mezzo di lei ogni cosa è stata fatta”.

Nessuno crede più al fatto che Giovanni abbia attinto alla cultura greca, al logos dei filosofi. Semmai è vero il contrario, i filosofi greci hanno attinto alla cultura orientale ed ebraica per sviluppare la loro teoria di un logos, un tramite fra Dio e la sua creazione.

I sumeri avevano l’idea di una “parola” potenza creatrice (“enem”). Il concetto venne trasmesso agli accadi (“awatu”). Questo millenni prima dei greci. (fonte: William F. Albright, From the Stone Age to Christianity)

Filone alessandrino, “filosofo” ebreo vissuto ad Alessandria d’Egitto, parla apertamente del “logos” in termini molto simili a quelli del Nuovo Testamento. Egli affermava che Mosè era il detentore della vera filosofia e che i greci vennero dopo di lui.

Anche la cultura giudaica aveva già visto nella Torah la “parola”, Davar (דבר) in ebraico. Per questo Giovanni ne parla nel suo vangelo dando per scontato che chi leggeva sapesse di cosa lui stesse parlando. Ed era così: i greci per via delle speculazioni filosofiche, gli ebrei per via dell’interpretazione del tempo.

Il Targum è una parafrasi in aramaico dell’Antico Testamento che usa “parola”, in aramaico “memra”, utilizzando questo termine quando Dio interagisce con la sua creazione.

Leggiamo sul sito https://www.sefaria.org/Targum_Jonathan_on_Genesis.3?lang=bi la parafrasi di Genesi 3:8, “Ed essi udirono la voce della Parola (aram. מֵימְרָא, Memra) del Signore Dio che camminava nel giardino…”

Quando Mosè scriveva queste cose meravigliose, era totalmente consapevole dei profondi significati e del valore profetico di ciò che riportava?

Quando, quindi, leggiamo le parole di Genesi 1:26 e anche queste ci colpiscono, non dobbiamo sorprenderci se esse hanno significati talmente grandi che ci conducono a verità rivelate solo con la venuta di Gesù ed il Nuovo Testamento.

Non fu Gesù stesso a dire che Mosè aveva scritto di lui? Vedi Giovanni 5:46. E dove aveva scritto di lui? In quale modo se non profetico e nei profondi significati dei suoi scritti che oggi comprendiamo appieno grazie alla guida dello Spirito Santo?

Torniamo al nostro soggetto iniziale: quando Dio dice “Facciamo l’uomo a nostra immagine”, con chi parla?

La chiave di lettura, come spesso succede con la Bibbia, ce la fornisce un attento esame del testo e la luce della piena rivelazione in Cristo che ci tramanda il Nuovo Testamento.

Dire qui che il Padre conversava con il suo Figlio Unigenito è perfettamente coerente con quanto ci insegna l’apostolo Giovanni e conferma Paolo nelle sue epistole.

“Egli era nel principio con Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lui; e senza di lui neppure una delle cose fatte è stata fatta.” (Giovanni 1:2,3) – La traduzione è mia. Di solito questo verso è riferito al femminile, perché il termine greco originale logos, maschile, viene giustamente tradotto con parola, che è femminile.

Se tutto è stato creato mediante il logos di Dio, il suo Figlio Unigenito, lo è stato anche l’Uomo.

“Per mezzo di lui sono state create tutte le cose che sono nei cieli e sulla terra, le visibili e invisibili.” (Colossesi 1:16)

Vi è una stupenda immagine relativa alla creazione dell’uomo.

“Dio il SIGNORE formò l’uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale e l’uomo divenne un’anima vivente.” (Genesi 2:7)

Chi soffiò l’alito della vita nell’uomo?

Come spesso accade, andiamo a trovare chiarimenti nel Nuovo Testamento.

“Allora Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch’io mando voi”. Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo””. (Giovanni 20:21, 22)

Il medesimo agente del Padre, il logos (Parola, Verbo) che soffiò l’alito vitale nelle narici per dare vita all’uomo all’alba del tempo, qui lo fa per dar vita al nuovo uomo, rigenerato dallo Spirito di Dio. (vd. Giovanni 3:1-15, Efesini 4:24, 2 Corinzi 5:17, Galati 6:15)

Il soffio, il vento, è in generale un chiaro riferimento allo Spirito. In tutta la scrittura. È un riferimento implicito nei termini originali utilizzati: in ebraico ruah (רוח) ed in greco pneuma (πνευμα).

Per spiegarlo con grande semplicità, possiamo riportare alla mente il nostro vocabolo “pneumatico”, esso deriva chiaramente dal greco e il suo uso è dovuto all’aria che lo riempie ed è essenziale per il suo uso.

Il verbo utilizzato qui per l’azione compiuta da Gesù, il soffiare sui discepoli è ἐνεφύσησε, il medesimo utilizzato in Genesi 2:7 nella traduzione greca della Torah, la LXX (Settanta).

Il riferimento è troppo esplicito e non può essere casuale.

Non ho mai portato gli occhiali in vita mia. Ma, come spesso accade, il passare degli anni, meglio di qualsiasi altra cosa, ci ricorda che siamo umani. Oggi devo indossare gli occhiali per vedere bene da vicino. A volte faccio lo splendido e non li metto e lavoro comunque. Poi, però, finisce che, se avessi indossato gli occhiali, non avrei commesso delle sviste paurose.

Lo stesso è con la Scrittura. Per capirla abbiamo bisogno di indossare gli occhiali dello Spirito! E per capire l’Antico Testamento dobbiamo indossare gli occhiali del Nuovo!

“Allora aprì loro la mente per capire le Scritture” (Luca 24:45). Se non leggiamo la Bibbia alla luce di Cristo, non potremo capirla. Come dice Paolo: “Ma le loro menti furono rese ottuse; infatti, sino al giorno d’oggi, quando leggono l’antico patto, lo stesso velo rimane, senza essere rimosso, perché è in Cristo che esso è abolito.” (2 Corinzi 3:14)

La comprensione delle Scritture non si ottiene studiando. In fatti la Scrittura parla di coloro che si sforzano “sempre d’imparare e non possono mai giungere alla conoscenza della verità”. (2 Timoteo 3:7)

Il velo è rimosso solo in Cristo e grazie al suo Spirito in noi possiamo comprendere la Verità delle Scritture.

Non è quindi nessuna sorpresa se adesso, alla luce di tutta la Scrittura, vediamo in Genesi Dio che tramite il suo Logos e lo Spirito Santo creano l’uomo. (Genesi 2:7) Quanto è meravigliosa la Parola di Dio, profonda; parla al nostro spirito confermando la nostra fede e aumenta il nostro entusiasmo per le cose di Dio.

Senza gli occhiali della fede in Cristo, queste cose rimarranno per sempre incomprensibili.

Infatti, nonostante Gesù annunciasse la Parola con libertà, solo alcuni si avvicinavano a lui e si sforzavano di comprendere il significato vero e profondo di ciò che dicevano: “Egli rispose loro: “Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli; ma a loro non è dato.” (Matteo 13:11).

I discepoli non avevano nessuna superiorità intellettuale rispetto agli altri, ma andavano dal loro maestro e lo interrogavano per capire, avevano desiderio di sapere e si rivolgevano alla fonte della sapienza, colui che nell’Antico Testamento era stato identificato con la Sapienza stessa!

Gli altri andavano a casa loro, presi dalla loro quotidianità. Alcuni, magari, nella loro presunzione, credevano di aver capito tutto. Altri forse andavano ad interrogare i loro rabbini, i maestri religiosi nei quali avevano fiducia.

 

Genesi 1:27 legge:

Dio creò l’Uomo a sua immagine

lo creò ad immagine di Dio

li creò maschio e femmina

Se ci fermiamo al verso 26 perdiamo altri dettagli a mio avviso importanti. Questo passaggio da singolare a plurale nel verso 27 è piuttosto interessante e pertinente con la nostra discussione. Dio (Elohim) crea l’Uomo, singolare. Ma questo singolare, ad immagine di Dio, è anche un plurale, maschio e femmina.

L’unità fra uomo e donna è descritta poco più avanti, quando la creazione dell’uomo e della donna (dell’Uomo) è vista in dettagli di una poesia ed universalità ineguagliata da nessuna altra narrazione epica, mitologica o scientifica.

“Dio il SIGNORE formò l’uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale e l’uomo divenne un’anima vivente. […] Allora Dio il SIGNORE fece cadere un profondo sonno sull’uomo, che si addormentò; prese una delle costole di lui, e richiuse la carne al posto d’essa. Dio il SIGNORE, con la costola che aveva tolta all’uomo, formò una donna e la condusse all’uomo. L’uomo disse: “Questa, finalmente, è ossa delle mie ossa e carne della mia carne. Ella sarà chiamata donna perché è stata tratta dall’uomo”. Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una stessa carne”. (Genesi 2:7, 21-24)

Profondissimi significati spirituali vengono espressi con una elegantissima ed allo stesso tempo efficace poesia.

L’unità dell’Uomo, composto da uomo e donna uniti, è definita con il termine ebraico: אחד, nel nostro alfabeto traslitterato come ‘echad.

Questo medesimo vocabolo lo ritroviamo nella confessione di fede ebraica, lo Shemà Israel. Questa la ribadì a gran voce lo stesso Gesù durante il suo ministero. Ho consultato la traduzione ebraica ufficiale in inglese di Deuteronomio 6:4 ed essa recita:

 

Ascolta, Israele:

Il Signore nostro Dio

Il Signore è uno

Questa versione preserva la ritmica del testo ebraico che si conclude affermando che Dio è “uno”. La parola ebraica utilizzata qui per dire che il Signore è “uno” è, come per l’Uomo (uomo e donna) אחד, ‘echad.

Come Uomo è un termine che include uomo e donna (v.27) che sono ‘echad, uno, allo stesso modo Dio, Elohim, (v.26) nel dire “facciamo” non fa altro che riferirsi alla sua ‘echad, di cui fanno parte il Figlio e lo Spirito Santo.

Credo che sia strabiliante, come già nelle prime pagine della Parola di Dio compaia subito così meravigliosamente coinvolto nella sua interazione con il mondo che crea, da farlo con la totalità della sua unità.

Al verso 1 troviamo il termine Elohim, che in teoria in ebraico non sarebbe esattamente un singolare, seguito da un verbo al singolare. Al v.2 è lo Spirito di Dio che si muoveva sopra le acque. Al v.3 ecco che la Parola, di cui parlerà Giovanni, compare quando leggiamo, Dio disse!

Da questo verso in avanti fa la sua fondamentale comparsa il logos, la Parola.

“Nessuno ha mai visto Dio; l’unigenito Figlio, che è nel seno del Padre, è quello che l’ha fatto conoscere.” Giovanni 1:18

Giovanni è lapidario: Dio non lo ha mai visto nessuno.

È naturale che sia i giudei che i primi cristiani abbiano compreso che era il logos (greco) davar (ebraico) memra (aramaico) parola (italiano) verbum (latino) a manifestarsi, manifestando Dio.

Infatti di chi era la voce in Genesi 3:8? E chi camminava nel giardino? Dalla presenza di chi si nascosero Adamo ed Eva?

Chi fa – fa! – delle tuniche di pelle per vestire l’Uomo? Il brano non dice che queste tuniche vengono create, quindi dobbiamo dedurne che un animale sia stato ucciso per ottenerle. Dio stesso rimedia alla nudità dell’Uomo – al danno che ha fatto con il peccato!

Qui Mosè parla profeticamente dell’opera di salvezza di Dio, che sarebbe stata un giorno compiuta per mezzo di Gesù, logos di Dio fatto uomo! Ed anche qui in Genesi, l’agente tramite il quale Dio rimedia alla nudità dell’uomo, non può non essere la Sua Parola.

In tutto il libro dell’Apocalisse, il vestire è descrittivo dello stato di grazia e salvezza – vd. Ap. 3:18, 4:4, 7:9,14, 16:15, 22:14. E sono dei riferimenti significativi, perché molto di quello che il peccato distrugge in Genesi, viene ripristinato in Apocalisse.

Di nuovo, quasi alla fine della drammatica scena della caduta dell’Uomo, troviamo quel plurale che per la prima volta avevamo visto in Genesi 1:26,

Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi,

quanto alla conoscenza del bene e del male

 

Ora la frase non ci può apparire così enigmatica, ma, alla luce di quanto abbiamo visto, perfettamente coerente. I “noi” sono l’ ‘echad in cui sono presenti il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

Mi riservo di affrontare in un altro articolo perché questa “conoscenza del bene e del male” ci sia costata l’Eden. Non sembrerebbe così grave, infatti, a prima vista; in realtà la forza dell’espressione semitica è ben altra rispetto a quella delle versioni in italiano. In questo articolo, già di per se piuttosto lungo, preferisco non approfondire anche questo dettaglio – sebbene non sia per nulla secondario, o trascurabile.

Volevo avere un quadro più chiaro sulla frase di Genesi 1:26 e per questo ho intrapreso questa piccola ricerca. Confesso di esserne stato edificato spiritualmente prima, e come studioso poi. Lo stesso spero sia accaduto al lettore.

La traduzione di 2 Corinzi 2:18 e la data di composizione del vangelo di Luca.

di Giuseppe Guarino

leggi l’articolo in pdf 

C’è un’affermazione nel Nuovo Testamento davvero degna di seria nota, e che riguarda il vangelo di Luca. La rinveniamo in una epistola di Paolo. In 2 Corinzi 8:18, scrive l’apostolo: “E noi abbiamo mandato con lui (con Tito) il fratello (Luca)  la cui lode è per l’evangelo in tutte le chiese.

Il fratello menzionato da Paolo ed associato a Tito è Luca. Ciò è dimostrabile anche dalla parte finale della narrazione del libro degli Atti degli Apostoli, dove il racconto in prima persona fa intendere che l’autore del libro si sia associato a Paolo nei suoi spostamenti e dal prosieguo della citazione dalla seconda epistola ai Corinzi: “non solo, ma egli è anche stato scelto dalle chiese come nostro compagno di viaggio in quest’opera di grazia, da noi amministrata per la gloria del Signore stesso e per dimostrare la prontezza dell’animo nostro.” (2 Corinzi 8:19)

Possiamo concludere che quando l’apostolo Paolo scriveva quell’epistola, Luca era già conosciuto “in tutte le chiese” a motivo del suo Vangelo. È un’affermazione importante ed una testimonianza di non poco conto.

Eppure, nelle versioni oggi comunemente disponibili, il testo è totalmente diverso  dalla traduzione (mia) che ho proposto.

Il testo greco originale di questo brano legge: “συνεπέμψαμεν δὲ μετ᾿ αὐτοῦ τὸν ἀδελφὸν οὗ ὁ ἔπαινος ἐν τῷ εὐαγγελίῳ διὰ πασῶν τῶν ἐκκλησιῶν”.

La Riveduta Luzzi traduce: “E assieme a lui abbiam mandato questo fratello, la cui lode nella predicazione dell’Evangelo è sparsa per tutte le chiese”. Il testo originale, però, non dice “questo” fratello, bensì “il” fratello. La frase “nella predicazione” non c’è nell’originale!

La Nuova Riveduta traduce: “Insieme a lui abbiamo mandato il fratello il cui servizio nel vangelo è apprezzato in tutte le chiese”. La parola “servizio” traduce male la parola che nell’originale invece è “lode”. La parola “apprezzato” non è nel testo greco!

Il tentativo, lo capisco, è quello di dare un significato alla frase di Paolo. Ma forse nel farlo, assecondando visioni preconcette che ritengono impossibile la composizione del vangelo di Luca già in un’epoca tanto remota, non si rischia di allontanarsi dal semplice ed immediato senso letterale della frase dell’apostolo? È per questo motivo che, in via generale, quindi, con le dovute eccezioni ed una ovvia ragionevole (sana) flessibilità, prediligo di solito le traduzioni letterali.

Una traduzione letterale di 2 Corinzi 8:18, e, secondo me, più corretta, la troviamo nella versione della CEI: “Con lui (con Tito) abbiamo inviato pure il fratello (Luca) che ha lode in tutte le Chiese a motivo del vangelo”.

Se riteniamo autentico il prologo di Luca alla sua narrazione evangelica e non un artificio letterario, il suo essersi diligentemente informato presso i testimoni oculari per proporre una narrazione accurata ed attendibile, colloca l’opera dell’evangelista nel periodo apostolico e tale datazione è coerente con l’affermazione di Paolo nella sua lettera.

Proprio negli stessi scritti di Luca abbiamo un’altra conferma.

Leggendo gli Atti degli Apostoli, notiamo subito nell’introduzione che, sebbene questo libro si trovi nelle nostre Bibbie dopo il vangelo di Giovanni, esso è stato composto dal medesimo autore del terzo vangelo ed in un secondo momento rispetto a quello.

“Nel mio primo libro, o Teofilo, ho parlato di tutto quello che Gesù cominciò a fare e a insegnare … ” (Atti 1:1)

Un altro punto fermo della nostra discussione è che gli Atti degli Apostoli si concludono … o meglio non si concludono: la narrazione, infatti, si arresta ed è facile dedurre che l’autore non avesse più nulla da narrare al tempo passato.

“E Paolo rimase due anni interi in una casa da lui presa in affitto, e riceveva tutti quelli che venivano a trovarlo, proclamando il regno di Dio e insegnando le cose relative al Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento”. (Atti 28:30-31)

Da questa conclusione del libro è facile argomentare che la sua composizione deve essere avvenuta dopo due anni della prigionia a Roma dell’apostolo, ma prima della sua eventuale liberazione o del suo martirio; viceversa Luca ne avrebbe certamente parlato.

Tenendo presente quanto detto, risulta evidente l’antichità del terzo Vangelo, che precede la composizione degli Atti di qualche tempo, sebbene non sappiamo quanto tempo prima sia stato scritto. Di certo prima che Paolo partisse per il suo terzo viaggio missionario e scrivesse la sua seconda epistola, cioè tra il 54 ed il 58 d.C. E con sufficiente anticipo perché la sua opera si diffondesse in maniera tanto estesa da motivare l’affermazione dell’apostolo.

5 luglio 2020

La bella immagine – che comunque ho usato anche altrove perché di facile reperimento sul web – con la citazione, l’ho presa dal web, cercando su google e si trova su https://www.uccronline.it. Lo aggiungo per dovere di correttezza.

L’articolo è adattato dal testo del mio libro “7Q5, il vangelo a Qumran?”

7Q5 IL VANGELO A QUMRAN? 

7Q5 è un piccolo frammento di papiro ritrovato in una delle grotte di Qumran facente parte di quella straordinaria scoperta che sono i cosiddetti rotoli del Mar Morto. Nel 1972 Josè O’ Callaghan avanzò l’ipotesi che il frammento di papiro in greco chiamato 7Q5 fosse quanto restava di una copia del Vangelo di Marco. Una tale eventualità mette in discussione le datazioni dei Vangeli date dagli studiosi, per renderle più coerenti con l’antica tradizione cristiana.

 

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Il fenomeno della lingua greca ed Israele

di Giuseppe Guarino

Poco più di 300 anni prima della nascita di Gesù, quando Israele era parte dell’immenso impero persiano, Filippo, re di Macedonia, morì lasciando il trono ed i suoi sogni al giovanissimo figlio Alessandro. Quest’ultimo raccolse più che degnamente l’eredità del padre riuscendo ad unificare e mobilitare l’intera Grecia contro l’odiato nemico persiano.

Alessandro mosse da impavido condottiero, guidando il suo popolo contro il più grande regno del tempo. Giunse in Anatolia e da lì, una vittoria dietro l’altra, percorse la via per l’Egitto. Passò per Israele, lasciando un segno indelebile nella storia del popolo ebraico, come testimoniano la diretta menzione di lui fatta nel libro biblico di Daniele e le notizie riportate dallo storico Giuseppe Flavio.

Giunto in Egitto da trionfatore, vi fondò la città di Alessandria che divenne la capitale del sapere mondiale per molti degli anni a venire, con la sua immensa biblioteca ed il fermento intellettuale che la percorreva in ogni direzione del pensiero umano.

Dall’Egitto, Alessandro partì per affrontare una volta per tutte  il suo più grande nemico: il re persiano, del quale riuscì a disfarsi nonostante l’inferiorità numerica; Dario fuggì letteralmente dal campo di battaglia.

In pochi anni (circa 10) il re di una piccola nazione, la Macedonia, era divenuto il dominatore assoluto di un territorio la cui estensione non aveva avuto eguali in tutta la storia dell’umanità. La leggenda dice che Alessandro, ad un certo punto, pianse perché non vi erano più terre da conquistare.

Sebbene nessuno gli fosse pari militarmente, il macedone dovette molto presto fare i conti con un nemico invincibile: morì, sembra a causa di una febbre, alla giovane età di 33 anni, in Babilonia.

Il suo vastissimo impero venne ripartito fra i suoi generali.

L’estensione della conquista di Alessandro Magno aveva gettato le basi per la diffusione della lingua e della cultura greca. Dopo la sua morte, questa avanzata non si arrestò. Al contrario, l’ellenizzazione, questo processo di colonizzazione intellettuale da parte del mondo greco, continuò inarrestabile.

L’Egitto finì in mano al generale Tolomeo, il quale fondò l’ultima dinastia di faraoni. Lo storico Giuseppe Flavio riferisce che Tolomeo Filadelfo (Libro XII delle Antichità Giudaiche) per incrementare la sua biblioteca, già comunque ricca di circa 200.000 libri, sponsorizzò la traduzione in greco della Legge mosaica. Questa versione prese il nome di Septuaginta o Settanta (abbreviata di solito “LXX”) perché le leggende che ne fanno quasi una versione guidata in maniera sovrannaturale, sostengono che i traduttori originari fossero 72.

Il greco rimase la lingua più diffusa del mondo antico, anche quando il dominio mondiale passò nelle mani dei romani.

Fu quindi in un’atmosfera culturale dominata profondamente dal prestigio universale ed indiscusso della lingua e cultura greche che il cristianesimo mosse i suoi primi passi.

Se consideriamo l’aperto mandato di Gesù agli apostoli, “Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli” (Matteo 28:19) comprendiamo benissimo perché il Nuovo Testamento venne molto probabilmente scritto e ci è comunque giunto in manoscritti in greco. Come oggi molti documenti vengono redatti in inglese per garantire una più vasta diffusione mondiale, era logico che allora, volendosi sganciare dai confini nazionali dell’ebraismo, il cristianesimo esprimesse e diffondesse le proprie Scritture nella lingua che aveva la massima diffusione.

Sebbene Jean Carmignac abbia in maniera convincente esposto la propria teoria sull’esistenza di uno o più vangeli semitici alla base dei nostri Matteo e Marco[1], non vi sono prove storiche oggettive che permettono concretamente di avvalorare questa tesi. La realtà delle evidenze manoscritte per l’originale del Nuovo Testamento (più di 5000 manoscritti) è interamente a favore di una composizione in lingua greca – ciò sebbene nessuno neghi la dipendenza dal pensiero ebraico delle Scritture cristiane.

Non possiamo immaginare che il greco fosse presente nel dialogo di tutti i giorni fra gli ebrei del tempo o nelle strade di Gerusalemme ma di certo, come attestano vari ritrovamenti, il greco era una lingua nota ed in uso.

Considerando poi anche le intense campagne di ellenizzazione condotte dalle dinastie dei Tolomei e dei Seleucidi, che avevano interessato anche i territori di Israele, il greco doveva aver avuto una diffusione ed un’importanza paragonabile a quella dell’inglese nelle varie colonie dell’impero britannico. Questa lingua doveva essere conosciuta anche dagli apostoli. E’ oltremodo difficile immaginare che gli autori di alcuni dei libri del Nuovo Testamento, comunque di nazionalità e cultura ebraica, abbiano imparato la lingua greca di proposito per comporre le loro epistole o i vangeli. Diversi gli indizi in questo senso, sparsi in tutto il Nuovo Testamento; non ultimo il tipo di greco nel quale è stato scritto, cioè il cosiddetto Koiné, la forma colloquiale e non letteraria di quella lingua.

Nel quarto vangelo è indizio molto forte della sua composizione originale in lingua greca la sfida aperta nel definire Gesù “il Salvatore del Mondo” (Giovanni 4:42), termine che proprio in greco era riferito all’imperatore romano Nerone (ὁ σωτὴρ τοῦ κόσμου) ed inciso su alcune monete dell’impero che lo raffiguravano. E’ lo stesso Giovanni, poi, che ci informa che l’iscrizione sulla croce era in latino, ebraico e greco (Giovanni 19:19-21), confermandoci che la Palestina era allora una nazione multilingue.

Nel vangelo di Matteo vi è un’espressione greca molto caratteristica. La troviamo già all’inizio di questo scritto: “… come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade …” (Matteo 6:2). Più volte Gesù si rivolse ai religiosi del suo tempo in questi termini: “Ma guai a voi, scribi e farisei ipocriti”, (Matteo 23:13, 14, 15, 23, 25, 27, ecc …). Il termine “ipocriti”, reso col greco “ὑποκριταί”, viene preservato intatto persino nell’importante edizione ebraica di questo vangelo detta di Shem-Tob, della quale parlerò in dettaglio più avanti. Esso è, infatti, in Matteo 6:2, semplicemente traslitterato in lingua ebraica איפוקראטיס. “Ipocrita” è un termine molto specifico, legato al mondo greco, alle rappresentazioni teatrali e fa aperto riferimento alla parte recitata dall’attore in scena. Alcuni sostengono che in questo frangente lo stesso Gesù, nei suoi discorsi, abbia utilizzato la parola greca riportata nei vangeli e non un equivalente ebraico o aramaico.

Il film “La Passione di Cristo” di Mel Gibson è stato girato in aramaico. Ma ad un certo punto, Pilato rivolgendosi a Gesù gli chiede in lingua greca “τί ἐστιν ἀλήθεια;” (Che cos’è verità?): è molto probabile che questo risponda alla realtà del dialogo avuto fra Gesù e Pilato.

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[1] Jean Carmignac, La nascita dei Vangeli Sinottici, edizioni Paoline. E’ un libro stupendo che consiglio sia agli specialisti che al lettore attento della Bibbia.




Giacomo 2:14, un esempio di articolo anaforico

di Giuseppe Guarino

Giacomo 2:14 è un famoso brano del Nuovo Testamento che da decisamente l’impressione di essere in contraddizione con le famose affermazioni degli scritti di Paolo sulla salvezza per mezzo della fede.

Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti; infatti siamo opera sua, essendo stati creati in Cristo Gesù per fare le opere buone, che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo.” (Paolo agli Efesini 2:8-10 – Nuova Riveduta)

In una lucida e chiara affermazione l’apostolo Paolo riassume qui sopra quanto altrove aveva già spiegato per esteso, ai galati ed ai romani in particolare.
Quanto però scrive l’apostolo Giacomo nella sua epistola sembra sostenere esattamente il contrario della dottrina paolina.

“A che serve, fratelli miei, se uno dice di aver fede ma non ha opere? Può la fede salvarlo?” (Giacomo 2:14 – NR)

Se ne sarà reso conto lo stesso lettore: i due brani citati, opera di due autori sacri diversi, si trovano in due punti diversi della Scrittura, e letti così come li troviamo nelle nostre traduzioni in italiano della Bibbia, sembrano dire due cose diverse.

Vi sono diversi fatti che vanno considerati nell’interpretazione della Sacra Scrittura: Per comprendere infatti cosa esattamente intendesse dire un autore (e ciò in realtà è vero nella lettura di qualunque testo) bisogna, per grandi linee, tenere conto delle circostanze che inducono a scrivere, del contesto e della lingua utilizzata.  In questo articolo considereremo in particolare il fenomeno linguistico in Giacomo 2:14 che, insieme al contesto, concorre a far comprendere che la contraddizione fra le affermazioni dei due apostoli è solo apparente. Infatti, un attento esame ed un corretto raffronto dei vari passi biblici ci offrono un quadro completo, dove la Parola ci insegna che la fede in Dio è, si, una realtà interiore ma si manifesta e rende visibile in azioni che ne comprovano l’esistenza: le opere di cui parla Giacomo.  La Bibbia non è una sterile raccolta di precetti o regole, di storielle moraleggianti o epiche gesta del passato. Essa è ispirata da Dio e data all’uomo perché egli abbia la certezza della propria fede e la viva in maniera attiva, quotidiana, offrendo il proprio contributo positivo, aiutando ed edificando il prossimo, testimoniandogli fattivamente – e non solo verbalmente – la salvezza del proprio Dio.

Paolo scrisse così al suo pupillo Timoteo:   “Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché (greco ἵνα) l’uomo di Dio sia
completo ( greco ἄρτιος ) e ben preparato per ogni opera buona.” (2 Timoteo 3:16-17)

Nella lingua greca la posizione delle parole in una frase non ne indica il caso, come accade in italiano: ad esempio il complemento oggetto non è tale per la posizione che occupa, bensì per la declinazione. Ne consegue che scrivendo a Timoteo, l’apostolo Paolo può enfatizzare subito che lo scopo della Scrittura è di rendere “ἄρτιος” (completo) l’uomo di Dio ponendo questo aggettivo, per
rafforzare la sua affermazione, subito dopo “ ἵνα”, “affinché”.  E’ significativo, a sostegno di quanto affermavo prima, che accanto a quella che è ritenuta (anche se da alcuni indirettamente) la formulazione più teorica dell’ispirazione della Sacra Scrittura Paolo si premuri di chiarire il senso dell’intervento di Dio: la Bibbia è ispirata perché, affinché, allo scopo di, preparare l’uomo attivamente a ciò che in essa apprende.    Vediamo il testo greco originale di Giacomo 2:14.

Τί τὸ ὄφελος, ἀδελφοί µου, ἐὰν πίστιν λέγῃ τις ἔχειν, ἔργα δὲ µὴ ἔχῃ;  µὴ δύναται ἡ πίστις σῶσαι αὐτόν;

Analizziamolo da vicino, prima con una traduzione interlineare

Τί  τὸ  ὄφελος,   ἀδελφοί µου,   ἐὰν   πίστιν  λέγῃ  τις  ἔχειν, 

Qual  (è)       l’utile,     fratelli   miei,    se      fede      dice     qualcuno   di avere,

ἔργα     δὲ      µὴ   ἔχῃ; 

opere    però  non   ha?

µὴ δύναται   ἡ πίστις   σῶσαι αὐτόν;   

può la fede salvarlo?

Notiamo un dettaglio fondamentale per la nostra discussione: l’assenza prima e la presenza poi dell’articolo davanti alla parola “fede”.

Τί τὸ ὄφελος, ἀδελφοί µου, ἐὰν πίστιν λέγῃ τις ἔχειν, ἔργα δὲ µὴ ἔχῃ;  µὴ δύναται ἡ πίστις σῶσαι αὐτόν;

La prima volta che compare la parola “fede” non è preceduta dall’articolo (πίστιν). La seconda volta, invece, è preceduta dall’articolo (ἡ πίστις). Ciò non è casuale.   Premetto che in greco si parla semplicemente di articolo, non essendovi un articolo indeterminativo da contrapporre a quello determinativo. Quindi per noi di lingua italiana, nella quale esistono determinativi ed indeterminativi, nasce il pericolo di cercare una logica (quella italiana) che in greco non esiste.  In questo caso particolare ci troviamo davanti ad un esempio di articolo anaforico, che per mezzo di un riferimento specifico riconduce ad un sostantivo precedentemente utilizzato.  Quindi quando è presente l’articolo la seconda volta che la parola “fede” compare (ἡ πίστις), dobbiamo comprendere che ciò sia un riferimento specifico alla sua prima occorrenza (πίστιν).    Alla luce di ciò propongo di seguito una traduzione meno letterale – in inglese si chiamerebbe expanded, ovvero amplified, in italiano direi estesa – allo scopo di comunicare il senso di come a mio avviso, alla luce della grammatica greca, dovrebbe correttamente intendersi questo brano biblico.

“A che serve, fratelli miei, se uno dice di aver fede ma non ha opere? Può la fede, questa fede che il tale dice di avere e che non produce opere, salvarlo?”

Quindi il riferimento dell’apostolo Giacomo non è alla fede che non salva, in generale, come regola, bensì al caso specifico di chi dice a parole di aver fede ma non ha opere che ne dimostrino l’esistenza.    Nessuna contraddizione fra il passo biblico che abbiamo esaminato qui e le idee espresse dall’apostolo Paolo nelle sue epistole. Anzi, perfetto accordo nella ricerca del giusto equilibrio fra fede ed opere. Stesso equilibrio che troviamo anche nella prima epistola dell’apostolo Giovanni ed in tutto il Nuovo Testamento. La somma di tale equilibrio sta nelle parole che lo stesso Giacomo utilizzerà poco più avanti:

“Tu hai la fede, e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le tue opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede.” (Giacomo 2:18 – NR)

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Questi i libri sul greco che ho pubblicato in italiano.