Secondo i criteri di datazione che ho già proposto altrove, sono convinto che i libri che fanno parte del Nuovo Testamento furono scritti tutti entro il I secolo d.C. in quella forma di greco koinè che ho già definito come greco biblico. E’ vero che in quel periodo l’impero romano dominava da tempo tutte le terre che si affacciavano sul Mediterraneo, ma la sua potenza militare non era riuscita a spodestare la cultura e la lingua greche. Come la caduta dell’impero britannico non ha significato la fine della diffusione della lingua e cultura inglese – che continua inarrestabile – anche nel mondo antico, con la morte di Alessandro Magno, il grande promotore dell’ellenismo nel mondo, lo smembramento del suo vastissimo impero prima e l’inarrestabile e sistematica conquista romana poi, non riuscirono a porre fine al dominio mondiale della cultura greca. Già nel III secolo a.C., in Egitto, sotto la dinastia (greca) dei Tolomei, si era cominciato a tradurre la Bibbia ebraica in greco. Questa versione fu detta – e tale nome rimane fino ad oggi – dei Settanta (LXX), ovvero Septuaginta, a motivo del numero (fra storia e leggenda) dei traduttori originari del Pentateuco. In quale greco venne approntata questa antica versione? La lingua greca forniva almeno due possibilità di scelta. La prima era quella del greco classico, l’elegante ma rigido linguaggio letterario; la seconda era quella del greco Koiné, il greco parlato, più pratico e meno retorico, meno rigido, più fluido ed aperto all’innovazione ed al cambiamento – come sono di solito le forme colloquiali di tutte le lingue. La scelta della versione dei LXX ricadde sul Koiné. Ancora oggi la Settanta è oggetto di particolare studio ed offre spunti di riflessione sulla terminologia greca proposta per interpretare le parole ed i fatti della fede ebraica. Il mandato di Gesù agli apostoli era diffondere la buona notizia della salvezza a tutto il mondo.
“Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.” (Matteo 28:19)
” … mi sarete testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all’estremità della terra.” (Atti 1:8)
La cosa più ovvia era che gli apostoli ed i loro discepoli ripiegassero sull’utilizzo del greco per le Scritture sacre della nuova fede, in modo da poterne assicurare la diffusione e la lettura al di fuori della cerchia ristretta del mondo ebraico. Anche per la composizione del Nuovo Testamento, la scelta non ricadde su una lingua colta e sofisticata, ma su un linguaggio che rendeva accessibile e chiaro il messaggio evangelico. Continuando il percorso già felicemente inaugurato dalla LXX, le Scritture cristiane furono scritte in Koiné. Ovviamente il Nuovo Testamento, da un punto di vista squisitamente letterario, non è opera di un solo scrittore. Purtroppo nelle sue versioni in italiano, l’intervento determinante del traduttore – sostanzialmente, sebbene non in maniera premeditata – uniforma lo stile dei singoli libri che lo compongono. Leggendolo invece nell’originale greco, questa omogeneità non si riscontra affatto. Mettendo Marco a confronto con Giovanni, è evidente la netta differenza di stile e di linguaggio. Paolo, poi, è ancora diverso. Per non parlare di Luca, la cui introduzione al vangelo è scritta in un greco piuttosto sofisticato – anche questo favorì la popolarità della sua opera presso alcune fazioni gnostiche avverse all’ebraismo. Tutti gli autori del Nuovo Testamento – mi sento di dire, quindi, anche l’Autore dietro gli autori che è lo Spirito Santo – hanno rinunciato agli schemi fissi, alla retorica artificiosa della lingua letteraria, preferendo la vitalità ed immediatezza della lingua parlata. Le ripercussioni di tale scelta sono state stupefacenti e le sperimentiamo quotidianamente nella lettura della Parola di Dio, nel modo in cui la comprendiamo e viviamo. Il greco del Nuovo Testamento è quindi semplice e chiaro, ma non elementare o banale: non è sofisticato, perché vuole innanzi tutto comunicare; ma non rinuncia ad esprimere una propria identità e quelle caratteristiche che ne fanno un fenomeno letterario di tutto rispetto. Vale la pena evidenziare il felice connubio fra cultura ebraica e lingua greca. Per quanto riguarda invece le influenze della cultura greca su quella ebraica, le idee sono state diverse in vari ambienti ed in vari periodi storici. Alcuni hanno attribuito un ruolo preponderante al senso del contributo greco – a mio avviso immotivatamente: l’ebraismo non disconosceva di fatto i meriti del mondo greco e accettava il valore della sua lingua, ma non era certamente pronto a soccombere ai suoi schemi culturali. La tradizione ebraica era troppo forte e troppo sicura della propria identità ed eredità perché potesse facilmente cedere ad influenze esterne. Ecco quindi che il linguaggio della LXX e quello del Nuovo Testamento, suo logico prosieguo, è allo stesso tempo semplice, ma innovativo: chiaro, ma vivo e stimolante.
La parola greca “agape” (in alfabeto greco: αγαπη), famosa anche al di fuori della cerchia di chi studia il greco biblico, è propria della traduzione dei LXX e del Nuovo Testamento: non la si trova infatti nel greco classico.
La famosa parola greca “zoe” (ζωη) che significa “vita”, è stata adottata dalla Bibbia, in particolare dal Nuovo Testamento e dagli scritti di Giovanni, per ricevere connotati più definiti e specifici di quanto il termine greco in sé non intendesse originariamente comunicare. E’ incredibile come un vocabolo colloquiale sia stato arricchito di significato al punto da reinventarlo quasi del tutto, mantenendo soltanto la riconoscibilità della sua forma, per trasmettere dettagli nuovi e meravigliosi. L’uso giovanneo della parola “zoe”, “vita” in particolare, le dona connotati di una profondità spirituale davvero notevole.
Un vocabolo degno di nota particolare è quello che troviamo nell’Apocalisse: “pantokrator” (παντοκράτωρ), cioè “onnipotente”. Il contesto in cui esso viene utilizzato è solenne, in armonia con la forza di un’espressione di questo genere. Al di fuori dell’Apocalisse, il Nuovo Testamento lo riporta soltanto in 2 Corinzi 16:18.
“Io sono l’alfa e l’omega”, dice il Signore Dio, “colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente”. (Apocalisse 1:8)
Giovanni prese in prestito la parola “pantokrator” dai brani dell’Antico Testamento dove i LXX avevano reso così l’espressione ebraica che le nostre Bibbie traducono in italiano “SIGNORE degli Eserciti” ovvero “Eterno degli Eserciti”. In Nahum 2:13, ad esempio, la LXX riportava Kyrios Pantokrator (κύριος παντοκράτωρ), letteralmente: “Signore Onnipotente”. Perché questa scelta da parte dei traduttori in greco dell’Antico Testamento? Pantokrator “(che pure è stato usato per tradurre Sebaoth anche nei libri più antichi) interpreta l’espressione nel significato più universale: non nel significato originario di <<Dio degli eserciti (di Israele)>>, che dà al suo popolo la vittoria sui nemici, bensì nel senso di <<Dio dominatore di tutte le potenze terrestri e celesti.>> […] l’evoluzione di significato dell’espressione ebraica Sebaoth ha la sua continuazione nella parola greca, che fu scelta per tradurlo (o addirittura coniata a questo scopo) …” – Orsolina Montevecchi, Bibbia e papiri, Luce dai papiri sulla Bibbia greca, pag. 39. Le affermazioni di questa studiosa gettano luce sul fenomeno della cultura religiosa ebraica che si spinge al di fuori dei suoi confini, per divenire la cultura propria di chiunque voglia avvicinarsi alla fede del Dio unico ebraico. In questo contesto non sarà inopportuno notare un ulteriore dettaglio nelle parole dell’Apocalisse: quando Giovanni si riferì a Dio come Colui “che è, che era e che viene”, esprimeva una valenza – evoluzione universalistica di un termine ebraico, simile a quella che ha portato alla nascita ed uso di “pantokrator”. Giovanni conosceva il Tetragramma, YHVH (in ebraico ), il Nome di Dio rivelato a Mosè nell’Antico Testamento, ma anziché proporlo nell’originale, preferì trasmetterne il significato al lettore di lingua greca. Le quattro consonanti ebraiche vengono così vocalizzate nel testo Masoretico, : aggiungendo semplicemente le vocali alla sequenza delle consonanti, avremo nel nostro alfabeto YeHoVaH. In proposito Asher Intrater, ebreo messianico, dice qualcosa che può spiegare il perché delle parole dell’apostolo Giovanni: “Aggiungendo le vocali “e”, “o”, “a” alle consonanti YHVH, si ottiene il nome YeHoVaH. In questa struttura verbale, la “e” (sh’va) indica il tempo versale futuro, la “o” (holom) il presente e la “a” (patach) il passato, dando al nome YeHoVaH il significato di “Egli sarà, Egli è, Egli era”: in altre parole, l’Eterno”. Asher Intrater, “Chi ha pranzato con Abrahamo?”, edizioni Perciballi, novembre 2012, p. 162. Potremmo quindi ipotizzare che Giovanni stesse letteralmente traducendo ed universalizzando l’espressione ebraica יהוה צבאות (Adonai Sebaoth) tradotta di solito nell’Antico Testamento “Signore degli Eserciti”.
Molto importante per la corretta lettura del senso dell’incarnazione del Figlio di Dio, è la comprensione del termine greco Logos (Λόγος) – utilizzato nell’originale greco del Vangelo di Giovanni. Di solito questo viene tradotto “Parola” dai protestanti mentre i cattolici preferiscono “Verbo”, seguendo la lezione dell’antica versione latina della Bibbia.
“Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio.” (Giovanni 1:1)
Si tratta di un vocabolo importante perché nel mondo della filosofia greca il concetto di Logos era già esistente quando Giovanni scriveva il suo Vangelo. Ma ciò non deve indurre a cadere nell’errore di immaginare che l’apostolo si ispirasse a concetti estranei al mondo ebraico: anche qui, una terminologia presa in prestito dalla lingua greca, esprime un concetto profondamente semitico. Gli antichi scrittori cristiani di lingua greca – come Giustino (nel II sec. d.C.) – hanno colto l’occasione per esprimere il senso dell’incarnazione ai non ebrei, proprio sfruttando questa somiglianza fra il Logos greco e quello neotestamentario.
Nulla accade per caso, ne sono profondamente convinto. La lingua ebraica è nata e cresciuta con la fede nel Dio unico ed è per questo che esprime meglio di ogni altra il linguaggio delle cose di Dio. Quella greca aveva raggiunto una grande diffusione ed una maturità perfetta proprio nel momento in cui venne a contatto con l’Antico Testamento: nelle mani giuste, permise di esprimere al meglio qualsiasi tipo di concetto, dal più concreto al più astratto. Divenne la lingua della Settanta prima e del Nuovo Testamento poi, il perfetto veicolo attraverso il quale la fede in Cristo poté essere diffusa in tutto il mondo.
Se non espressamente detto il contrario le citazioni bibliche sono tratte dalla Nuova Riveduta e il testo greco originale utilizzato è quello Maggioritario.
Le citazioni in greco non scoraggino il lettore che non ha nozioni di quella lingua: ho fatto di tutto perché l’articolo sia leggibile anche per lui.
Questa discussione ricalca argomenti e riprende quanto già detto nell’altro mio articolo La lingua del Nuovo Testamento, ma prospettiva e scopo delle due discussioni sono diversi.
Introduzione
Quando ci muoviamo nel campo delle lingue originali della Bibbia conviene farlo con la stessa attenzione con cui ci muoveremmo all’interno di un negozio di cristalli. Discutere delle lingue ebraica e greca può essere una benedizione, ma una loro errata o imprecisa comprensione rischia di allontanarci dal senso autentico della Sacra Scrittura piuttosto che aiutarci a comprenderlo meglio.
Ebbi a parlare con un mio lettore tempo addietro, il quale mi chiedeva quanto importante fosse secondo me la conoscenza linguistica per una migliore comprensione della Bibbia. Io risposi semplicemente che se bastasse conoscere l’ebraico per capire le Scritture, gli ebrei dovrebbero essere tutti cristiani. Ma è praticamente vero il contrario. Da tempo, quindi, ho concluso che c’è di più della semplice conoscenza linguistica dietro la comprensione del messaggio di Dio! E’ con questa consapevolezza che affronto anche discussioni su questioni così fondamentalmente complesse: senza l’assistenza dello Spirito Santo la conoscenza delle lingue bibliche vale ben poco.
Perché propongo questa riflessione? Sto studiando l’ebraico e mi imbatto sempre più spesso in chi si sforza di recuperare l’eredità ebraica della nostra fede cristiana alcuni fino al punto di tentare di ripristinare nella lettura della Bibbia nomi di Dio quali Yahweh o Elohim, chiamare Gesù Yeshua o gli apostoli con i loro nomi ebraici. Con tutto il rispetto che provo per gli studi di altri credenti, io non credo sia necessario un ritorno tanto radicale all’ebraismo per sentirsi di aderire con maggiore fedeltà alla fede degli apostoli. Anche perché dal Nuovo Testamento, dalle scelte che stanno dietro la sua composizione e dalla terminologia della fede cristiana che in esso rinveniamo, deduciamo che tutt’altro deve essere stato l’atteggiamento della Chiesa nascente.
Non mi fraintenda il lettore: non sto per nulla sottovalutando l’importanza del contributo della conoscenza della cultura ebraica per una migliore coscienza della nostra identità cristiana. Su questo argomento ho già scritto sottolineandone l’importanza nel mio studio Radici ebraiche della fede cristiana. Il tentativo di recuperare l’eredità linguistica del giudaismo dell’epoca di Gesù, però non può farci spingere all’estremo opposto, facendoci trascurare l’eredità linguistica universale che è implicita nell’uso della lingua greca scelta per il Nuovo Testamento.
Isaia 7:14
Passiamo ad esaminare subito un esempio concreto di ciò che sto dicendo. Isaia 7:14 legge così nella Nuova Riveduta:
“Perciò il Signore stesso vi darà un segno: Ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.”
La parola ebraica tradotta da questa versione della Bibbia con “la giovane” è העלמה (nel nostro alfabeto: ha-almah. NB. L’ebraico si legge da destra verso sinistra).
Nella stessa Nuova Riveduta questo brano viene citato nel Vangelo di Matteo nel seguente modo:
“Tutto ciò avvenne, affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “La vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele”, che tradotto vuol dire: “Dio con noi“. (Matteo 1:22-23)
L’originale greco di Matteo traduce la parola ebraica העלמה (ha-almah) con “ἡ παρθένος” (he parténos), quest’ultimo vocabolo corrispondente, senza alcun dubbio, a “la vergine”.
La citazione dell’evangelista aveva lo scopo di dimostrare che Gesù era nato da una vergine ed era quindi il Messia promesso proprio dalla profezia di Isaia. Vista la contraddizione esistente nella Nuova Riveduta (chiamiamo le cose col loro nome), si potrebbe accusare Matteo di avere citato erroneamente o peggio faziosamente il brano veterotestamentario per soddisfare ad ogni costo le esigenze della propria narrazione. Quest’ultima supposizione sarebbe persino plausibile se non fosse che la versione greca dell’Antico Testamento, di molto più antica del cristianesimo e del Nuovo Testamento ed approntata in ambienti ebraici traduce così Isaia 7:14: “ἰδοὺ ἡ παρθένος ἐν γαστρὶ ἕξει”, che letteralmente significa: “ecco, la vergine sarà incinta”. Abbiamo quindi chiara prova che Matteo cita Isaia attribuendogli il significato che gli stessi fruitori del testo ebraico originale gli attribuivano.
Non condivido e non capisco la scelta della Nuova Riveduta nella traduzione di Isaia e strizzo l’occhio alla coerenza della Nuova Diodati che mantiene anche nel testo ebraico la parola “vergine”. Perché è ovvio che la chiarificazione offerta dalla LXX (Settanta) e dallo stesso vangelo di Matteo diviene determinante per una corretta interpretazione del testo ebraico.
La realtà dei fatti – ed è ciò che voglio dire con questo studio – è che se l’ebraico ha seminato, il greco ha innaffiato ed il cristianesimo raccolto. La fede nel Dio unico, un tempo patrimonio esclusivo di una sola nazione, anche a motivo della lingua con cui essa veniva tramandata diviene universale.
Il mandato di Gesù
Dal III secolo a.C. la Bibbia ebraica venne tradotta in greco per essere diffusa fra i giudei della dispersione. E’ vero che Giuseppe Flavio racconta che fu il sovrano egiziano a volere la traduzione della Legge mosaica per arricchire con un nuovo testo la biblioteca di Alessandria, ma la successiva traduzione degli altri libri veterotestamentari fu motivata dal fatto che gli ebrei presenti in Egitto avevano ormai bisogno di una traduzione greca per poter leggere il libro che preservava le loro tradizioni religiose e persino, in un certo senso, la loro identità nazionale.
La scelta della lingua greca viene ripresa dagli autori del Nuovo Testamento con l’evidente intento di rendere universale l’annuncio dell’evangelo. Ciò in perfetto accordo con l’insegnamento di Gesù, il quale, come riscontriamo più volte nei vangeli, sottolinea che il suo messaggio non riguarda solo il popolo ebraico, ma ogni individuo che sia pronto ad ascoltarlo.
“Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.” (Matteo 28:19)
E’ questo il grande mandato al quale fanno eco le parole che leggiamo negli Atti degli Apostoli.
“Ma riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all’estremità della terra“. (Atti 1:8)
Giovanni riassume questa chiamata universale dell’evangelo all’inizio del suo vangelo. “È venuto in casa sua e i suoi non l’hanno ricevuto; ma a tutti quelli che l’hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventar figli di Dio: a quelli, cioè, che credono nel suo nome; i quali non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né da volontà d’uomo, ma sono nati da Dio“. (Giovanni 1:11-13)
Ecco che non è più il diritto di sangue, ma la fede in Cristo che fa di noi dei figli di Dio, che ci fa entrare in relazione con Lui.
Nonostante la parole di Gesù e i brani che ho citato, i dubbi sull’apertura ai Gentili, i non ebrei, permangono nella chiesa primitiva ed esistono all’interno della stessa cerchia degli apostoli, come appare evidente nella narrazione che vede coinvolto Pietro e che porterà alla conversione alla casa del centurione Cornelio (da Atti 10 in avanti).
Con Paolo, però, le barriere fra cristiani ebrei e cristiani non ebrei crollano definitivamente. La sua attività missionaria è infatti rivolta prettamente a questa seconda categoria di credenti, come dirà lui stesso: “Parlo a voi, stranieri; in quanto sono apostolo degli stranieri faccio onore al mio ministero.” (Romani 11:13). Tutto il capitolo undici dell’epistola ai Romani è in realtà un toccante discorso dell’apostolo proprio sul senso della chiamata dei Gentili, degli stranieri, e il cambiamento che è conseguito nel rapporto fra Israele ed il suo Dio nazionale, adesso divenuto Dio di ogni uomo che lo invoca.
L’originale del Nuovo Testamento e il Tetragramma
Un passaggio molto importante verso l’universalizzazione del messaggio dell’evangelico è l’aver reso nell’aver reso accessibile anche il Nome veterotestamentario di Dio, il cosiddetto Tetragramma. Escludo subito e senza riserve la possibilità che il Tetragramma fosse, in qualsiasi forma, parte dell’originale greco del Nuovo Testamento – lo si può sostenere, come fanno alcuni, ma non dimostrarlo. E’ vero che degli antichi manoscritti della versione dei LXX (Settanta) hanno il Tetragramma, ma si tratta di copie ad uso del popolo ebraico stesso. (Vedi l’esaustiva trattazione dell’argomento da parte di Albert Pietersma, “Kyrios or Tetragram, A Renewed Quest for the Original LXX”). Prova a mio avviso definitiva, schiacciate e al di sopra di ogni possibile congettura è il fatto che nessun manoscritto del Nuovo Testamento greco ha il Tetragramma – parliamo di migliaia di testimoni (oltre 5000 solo in greco, 8000 in latino e innumerevoli citazioni nei padri della Chiesa), evidenze provenienti da ogni parte della cristianità e riguardanti un periodo storico che va dal II al XVI secolo.
La realtà dei fatti è che la necessità di tradurre il nome personale di Dio (che nell’Antico Testamento rappresenta una così profonda espressione dell’ebraismo da divenire impronunciabile) porta all’utilizzo della parola greca Kyrios, Signore.
Questo passaggio è evidente in un passo molto significativo nelle epistole di Paolo.
” … perché, se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato; infatti con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa confessione per essere salvati. Difatti la Scrittura dice: “Chiunque crede in lui, non sarà deluso”. Poiché non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato.” (Romani 10:9-13)
Se Paolo avesse inserito in questo brano il Tetragramma, avrebbe apertamente contraddetto il senso della sua affermazione, precludendo di fatto l’accesso all’invocazione del Nome di Dio a coloro che non sapevano come pronunciare l’Ha Shem (il Nome) ebraico, יהוה. Egli invece parla di Dio come del Signore, in greco Kyrios, e in questo modo il mondo intero del suo tempo, praticamente tutto di lingua greca, poteva e sapeva come invocare il nome del Signore per essere salvato.
La parte finale di questo verso è la citazione di un brano dell’Antico Testamento (Gioele 2:32) che in ebraico ha il Tetragramma, יהוה
La citazione di Paolo in greco, ricalca il testo della Settanta.
Il testo greco di Gioele 2:32 in possesso di Paolo deve essere stato uguale a quello oggi a nostra disposizione.
Con il Nuovo Testamento il Dio nazionale ebraico, rivelatosi a Mosè come יהוה , diviene il Signore (Kyrios) di ogni uomo che lo invoca.
Vino nuovo in otri nuove
Se da una parte abbiamo una terminologia greca che riprende quella ebraica e la universalizza, dall’altra il nuovo mezzo linguistico nelle mani degli autori sacri li spinge a fare delle affermazioni che non erano parte della lingua e cultura religiosa ebraica – almeno non in maniera esplicita.
Ho dato uno sguardo agli scritti di Filone, il “filosofo” ebreo vissuto ad Alessandria d’Egitto fra il 50 a.C. ed il 50 d.C. La sua dottrina del logos deve essere in qualche modo collegata al pensiero di Paolo. Non credo che sia nulla di cui stupirsi: tutto il Nuovo Testamento mostra riferimenti al pensiero ebraico del tempo in cui è stato scritto – e non solo. Non possiamo pretendere di eradicare l’elemento umano della Parola di Dio e visto che i vari autori sacri hanno vissuto in un determinato contesto intellettuale e culturale, ciò ha ovviamente lasciato una traccia nei loro scritti.
Qualcuno si aspettava altro?
Vorremmo forse che lo stesso Gesù avesse parlato in parabole riferendosi ad impiegati, computer o avesse parlato di automobili ed aerei? Il fatto che la Parola di Dio si sia incarnata, implica che lo abbia fatto in un momento storico ben preciso, nel quale essa è stata annunciata agli uomini, con parole e concetti comprensibili. Sta a noi, uomini evoluti ed attenti del nostro tempo, in possesso di grande intelligenza e mezzi, attualizzare le parole di Gesù e degli apostoli. Forse alcuni si aspettavano il contrario dalle pagine della Bibbia. Ma la realtà è che se Dio ha parlato per mezzo di Gesù nel primo secolo con linguaggio del primo secolo, chi sarebbe venuto dopo, inclusi noi, ha buone speranze di comprendere ciò che egli intendeva dire, attingendo al bagaglio della cultura umana. Ma se avesse parlato allora con il linguaggio del nostro tempo, l’umanità avrebbe dovuto attendere duemila anni prima di comprendere ciò che egli intendeva dire.
La cristologia di Paolo ha diversi tratti in comune con quella di Filone, ma c’è nelle sue parole qualcosa di profondamente diverso, che lo distacca da lui in maniera netta: Paolo crede nell’incarnazione del logos in Gesù di Nazaret. Ciò lo porta ad azzardare una terminologia e gli fa raggiungere conclusioni ben più definite di quelle di Filone, visto che le realtà che il grande filosofo giudeo ha teorizzato, Paolo le ha viste manifestate in un personaggio storico che lui non esita a definire Creatore, Signore, Salvatore, il Cristo promesso fattosi uomo.
L’epistola ai Colossesi introduce nella terminologia biblica un vocabolo molto interessante.
Ovvero, in italiano: “Poiché al Padre piacque di far abitare in lui tutta la pienezza“.
La parola πλήρωμα (pleroma), di solito tradotta “pienezza”, assume qui dei connotati molto specifici, divenendo chiaramente un termine tecnico che riassume quanto lo stesso Paolo spiegherà più avanti nella stessa epistola.
In italiano: “perché in lui abita corporalmente tutta la pienezza della Deità“.
L’apostolo Paolo utilizza un linguaggio sofisticato, attento, preciso, che attinge alla lingua e cultura greca più che a quella ebraica, per spiegare la realtà della pienezza, o addirittura totalità direi, degli attributi della Divinità, o meglio ancora Deità, che risiedono corporalmente nella persona di Cristo.
Un altro significativo attributo che lo stesso Paolo riferisce al Cristo è presente poco prima nella stessa epistola:
In italiano: “Egli, che è splendore della sua gloria e impronta della sua essenza“.
Anche εἰκὼν (immagine) e χαρακτὴρ (impronta) sono parole che esprimono concetti molto profondi e si sono potuti introdurre nel linguaggio della fede cristiana anche grazie alla ricercatezza della lingua greca. Simili aggettivi riferiti al Cristo, al Messia, nel Nuovo Testamento non li troviamo apertamente esposti nell’Antico. E’ vero che il Nuovo Testamento è stato scritto in koiné e non in attico, la forma letteraria e sofisticata del greco; ma ciò non deve far pensare che al momento giusto gli autori sacri non abbiano saputo elevare il livello della ricercatezza dei loro vocaboli per esprimere concetti che lo richiedessero.
La dottrina biblica del logos
Giovanni ha scritto il quarto dei vangeli, che porta il suo nome. Alcune sue affermazioni sono stati determinanti per la cristologia della Chiesa. L’inizio del suo Vangelo è semplicemente meraviglioso, paragonabile per solennità al primo verso della Genesi.
“Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio” (Giovanni 1:1).
Parola, ma anche Verbo, rendono di solito l’originale greco logos. Mi si permetta di utilizzare da qui in avanti quest’ultimo vocabolo e non la sua traduzione.
“In principio era il logos ed il logos era con Dio ed il logos era Dio.”
Ho già espresso altrove e per esteso la mia convinzione che Giovanni faccia riferimento all’interpretazione ebraica dei fatti dell’Antico Testamento e non alla concezione greca del logos – come si potrebbe superficialmente supporre. Lo dimostra anche il fatto che Filone parla di logos da ebreo e Paolo, ebreo per nascita e tradizione religiosa, riprende gli stessi concetti, anche se non utilizza apertamente il vocabolo logos.
Nella sua stupenda opera “De Opificio Mundi”, cioè “La Creazione del Mondo”, Filone parla di “θείῳ λόγῳ” affermazione che C.D. Yonge traduce con “Divine Reason”, ovvero “Ragione Divina”, ma che possiamo anche intendere come “Parola Divina”, sfruttando l’ambivalenza (almeno) della parola greca originale, che può indicare sia la “ragione” sia la “parola”, cioè sia pensiero che linguaggio.
Giovanni, però, va oltre quello che ha ereditato dalla sua cultura ebraica. Infatti egli scrive:
“Θεὸς ἦν ὁ Λόγος”
“Il logos è Dio”
“La Parola è Dio”
Ecco quindi che Giovanni, come Paolo, aggiunge alle conclusioni del “filosofo” ebreo di Alessandria una grande certezza che quegli non poteva avere.
“E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre.” (Giovanni 1:14)
Mi si permetta di espandere il testo di questo brano per cercare di trasmettere quanto a mio avviso esso implica se si legge il testo in greco originale e lo si considera alla luce di tutto il prologo di questo stupendo vangelo: “Il logos si è fatto uomo ed ha dimorato per un po’ di tempo fra noi, incarnando Grazia e Verità, e noi apostoli – me Giovanni compreso – siamo stati spettatori della sua Gloria, Gloria che spetta a Colui che è Figlio Unigenito venuto dal Padre”.
Già l’Antico Testamento aveva spinto i commentatori ebraici a parlare delle manifestazioni di Dio avvenute attraverso la sua “Parola”, ovvero in aramaico “Memra”, in ebraico “Davar”. Con l’uso del termine logos il Nuovo Testamento si propone latore di un messaggio universale, con una terminologia che ha senso, allo stesso tempo, sia per la cultura ebraica sia per quella greca. Nei secoli a venire i padri della Chiesa utilizzeranno il concetto di logos per spiegare alla mentalità greca il senso dell’incarnazione del Figlio di Dio, mentre, visto proprio l’esteso riferimento cristiano, la speculazione ebraica lascerà cadere l’argomento.
Apocalisse 1:8
L’ultimo esempio che citerò a favore della mia discussione si trova nel libro dell’Apocalisse:
La traduzione: “Io sono l’alfa e l’omega“, dice il Signore Dio, “colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente“.
Giovanni prende in prestito la parola παντοκράτωρ, “pantokrator” dalla LXX (Settanta). Questa versione traduce infatti l’ebraico “יהוה צבאות” (Adonai Sebaoth) in Nahum 2:13, con “Kyrios Pantokrator” (in alfabeto greco “κύριος παντοκράτωρ”), letteralmente “Signore Onnipotente”. Perché questa scelta?
Come afferma Orsolina Montevecchi, a pag. 39 del suo “Bibbia e papiri, Luce dai papiri sulla Bibbia greca”, Pantokrator “(che pure è stato usato per tradurre Sebaoth anche nei libri più antichi) interpreta l’espressione nel significato più universale: non nel significato originario di <<Dio degli eserciti (di Israele)>>, che dà al suo popolo la vittoria sui nemici, bensì nel senso di <<Dio dominatore di tutte le potenze terrestri e celesti.>> […] l’evoluzione di significato dell’espressione ebraica Sebaoth ha la sua continuazione nella parola greca, che fu scelta per tradurlo (o addirittura coniata a questo scopo) …”
Le affermazioni di questa importante e competente studiosa confermano il senso della nostra discussione.
Sulle parole di Giovanni in Apocalisse occorre evidenziare ancora dei dettagli importanti.
Quando Giovanni si riferisce a Dio come “colui che è, che era e che viene”, altro non fa che esprimere in termini universali il Nome ebraico di Dio, utilizzando la stessa logica che ha portato alla nascita ed uso di “pantokrator“. L’apostolo conosce ovviamente il Tetragramma, YHVH (יהוה), ma invece di proporlo nella forma originale, preferisce trasmettere in questo modo il significato al lettore di lingua greca. Magari non tutte le sfaccettature dell’ ha Shem ma almeno una, quella che sottolinea l’eternità di Dio.
Le quattro consonanti ebraiche del nome divino vengono vocalizzate nel testo Masoretico.
In proposito Asher Intrater, ebreo messianico, dice qualcosa che può spiegare il perché del riferimento di Giovanni al concetto di eternità implicito nel Tetragramma. Egli scrive: “Aggiungendo le vocali “e”, “o”, “a” alle consonanti YHVH, si ottiene il nome YeHoVaH. In questa struttura verbale, la “e” (sh’va) indica il tempo versale futuro, la “o” (holom) il presente e la “a” (patach) il passato, dando al nome YeHoVaH il significato di “Egli sarà, Egli è, Egli era”: in altre parole, l’Eterno”. Asher Intrater, “Chi ha pranzato con Abrahamo?”, edizioni Perciballi, novembre 2012, p. 162.
L’ovvia naturale deduzione è che con l’espressione “colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente” Giovanni stia letteralmente traducendo ed universalizzando l’espressione ebraica “יהוה צבאות” (Adonai Sebaoth).
Conclusioni
Sono stati gli apostoli per primi, in obbedienza al mandato di Cristo e con la guida dello Spirito Santo, ad aprire la via per la salvezza anche ai non israeliti. Essi l’hanno fatto parlando delle meraviglie di Dio raccogliendo quanto più possibile della fede ebraica ma presentandola con parole ed idee (greche) che risultassero comprensibili all’uomo del loro tempo.
Quando Paolo si trovò in Atene dovette confrontarsi con chi lo interrogava sulla sua fede. Egli lo fece sfruttando l’occasione porta dalla religiosità del luogo, parlando del Dio che lui serviva, come del “dio sconosciuto” al quale i greci avevano dedicato un altare.
Queste le accorate parole di Paolo: “E Paolo, stando in piedi in mezzo all’Areòpago, disse: “Ateniesi, vedo che sotto ogni aspetto siete estremamente religiosi. Poiché, passando, e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato anche un altare sul quale era scritto: Al dio sconosciuto. Orbene, ciò che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo…” (Atti 17:22-24)
Il Dio di Mosè, ricordato da Israele come Colui che aveva fatto uscire il popolo dall’Egitto, venne annunciato ai Gentili come il Dio Onnipotente, creatore del cielo e della terra, che aveva mandato il suo Unigenito Figlio sulla terra per la salvezza dell’intera umanità, di chiunque avrebbe sperato e creduto in lui.
Con in mente quanto abbiamo discusso possiamo certamente guardare indietro con sguardo meravigliato alle radici ebraiche della nostra fede, ma dobbiamo andare avanti, traducendo l’evangelo nella lingua parlata dalla gente, attualizzandolo perché lo si possa comprendere e non solo contemplare meravigliati. La nostra eredità ebraica affascina e impone rispetto. Fermarsi ad essa, però, non è in armonia con la prassi apostolica che promuoveva su tutto l’accessibilità e l’universalità che distinguono fondamentalmente la fede cristiana da quella ebraica. I seguaci di Gesù partono dalla fede giudaica; non la rinnegano, ma in ossequio alla volontà del loro Signore annunciano il messaggio della salvezza in Gesù, Cristo e Signore a tutta l’umanità.
La traduzione in greco degli elementi della cultura religiosa ebraica – non solo della lingua – porta con se un grande messaggio: non contano in se e per se le parole, ma quello che le parole rappresentano. Ha shem, il Nome, יהוה, non è sacro in se, ma perché lo è Dio che così si fa chiamare. Se יהוה non è più pronunciabile e il concetto che vuole richiamare è troppo estraneo ai destinatari dell’evangelo, Kyrios non diviene meno sacro se sacro è il Dio al quale ci rivolgiamo così. Se nell’Antico Testamento Dio è יהוה che aveva fatto uscire il popolo dall’Egitto, nel Nuovo Egli è il Padre del Signore nostro Gesù Cristo.
Dio benedica la Sua Parola nei nostri cuori, qualunque sia la nostra lingua.
“Gesù rispose loro: non io eletto voi dodici? Eppure uno di voi è il diavolo.” (versione mia)
Una traduzione di questo genere è piuttosto “forte” e comporta delle ovvie difficoltà esegetiche, ma si tratta della versione che rispetta le regole grammaticali del greco. E’ la conoscenza della lingua originale a doverci guidare nella ricerca del senso di un testo e della sua traduzione, non l’esegesi, che è invece il passo successivo: accertato un testo e la corretta traduzione allora si procede all’interpretazione.
Le varie versioni italiane interpretano così questo brano:
“Gesù rispose loro: “Non ho io scelto voi dodici? Eppure, uno di voi è un diavolo!” (Nuova Riveduta, CEI, Nuova Diodati)
La Traduzione del Nuovo Mondo che parafrasa così (non possiamo sostenere certo che traduca): “Gesù rispose loro: “io ho scelto voi dodici, non è vero? Eppure uno di voi è un calunniatore.”
La Diodati (1649) rende così il brano: “Gesù rispose loro: Non ho io eletti voi dodici? E pure uno di voi è diavolo”.
La parola “diavolo” è un nome monadico, cioè non ha bisogno dell’articolo determinativo per riferirsi ad un singolo, specifico soggetto. Sebbene, quindi, in questo caso non vi sia l’articolo (determinativo) davanti la parola greca διάβολός questa non si può intendere come indefinita o peggio qualitativa. Non si parla cioè in questo brano di “un diavolo” perché non vi sono più “diavoli”. Esistono più demoni, ma il nome greco di Satana è Diavolo; entrambi i nomi sono propri dello stesso individuo e non di una categoria.
In Luca 21:25 rinveniamo una casistica simile, stavolta non turbata da perplessità esegetiche:
“Καὶ ἔσται σημεῖα ἐν ἡλίῳ καὶ σελήνῃ …”
Sebbene non vi sia l’articolo davanti le parole “sole” e “luna”, è così che viene tradotto il brano:
“Vi saranno segni nel sole, nella luna …” (Nuova Riveduta, CEI, Nuova Diodati, Diodati, Traduzione del Nuovo Mondo).
Le traduzioni aggiungono con grande serenità – ed a ragione – l’articolo determinativo davanti la parola “sole” e “luna” sebbene non vi sia l’articolo in greco, perché è ovvio non vi è un altro “sole”, né un’altra “luna”.
Cosa dire dei problemi di esegesi del testo? Non li possiamo di certo risolvere aggirando la realtà oggettiva del testo che abbiamo davanti. Del resto non ci troviamo davanti ad una difficoltà più grande di quella che si presenta in altri brani simili. Ad esempio in Marco Gesù chiama Pietro “Satana” e non “un satana”: “Ma Gesù si voltò e, guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro dicendo: “Vattene via da me, Satana! Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini.” (Marco 8:33 – Nuova Riveduta)
Concludendo, in Giovanni 6:70 Gesù non si riferisce a Giuda come ad “un diavolo”, bensì come al “Diavolo”. Fondamentalmente quasi nulle le implicazioni per la sostanza della storicità dei fatti descritti, ma valeva la pena osservare un dettaglio tanto interessante dal punta di vista linguistico.
Osservazioni grammaticali tratte da “Greek Grammar Beyond the Basics” di Daniel B. Wallace.
Come pronunciare il greco del Nuovo Testamento? Vi sono diversi modi diffusi negli ambiti scolastici e scientifici. Vanno fondamentalmente tutti bene, visto che parliamo di una lingua – quella del Nuovo Testamento – della quale ignoriamo la corretta pronuncia. Allo stesso tempo, però, il greco koinè ha un discendente vivo e vegeto, il greco moderno. Esaminiamo da vicino questa interessante problematica.
Cos’è la scrittura?
La scrittura è la rappresentazione grafica del linguaggio umano.
Nel corso della storia e nelle varie aree geografiche, tale fenomeno ha conosciuto le più diverse espressioni. Noi occidentali siamo abituati all’uso dell’alfabeto e, per naturale inclinazione umana, lo consideriamo la forma di scrittura migliore e più avanzata. Chi scrive si permette di prendere le distanze da questo luogo comune. L’alfabeto che noi conosciamo è certamente molto versatile, ma vi sono altre forme di scrittura altrettanto efficaci ed altre esteticamente molto più attraenti. La bellezza è un dettaglio importante dell’esperienza umana in genere e mi chiedo se anche nella scrittura sia lecito che ceda il passo alla funzionalità. Non è forse per questo che esistono tanti “font” nei nostri computer – proprio a riprova della ricerca della soddisfazione del senso del gusto, del bello, innato nella nostra natura?
La bellezza della scrittura classica egiziana è indiscutibile. Ciò spiega almeno in parte perché rimase utilizzata per millenni dal popolo che l’aveva concepita proprio all’alba della sua storia. I geroglifici hanno oscurato nell’immaginario comune sull’antico Egitto le altre forme molto più pratiche di scrittura utilizzate degli egiziani, quali lo ieratico e demotico.
Difficile non farsi incantare dalla bellezza della scrittura giapponese e da quella cinese. Proprio i popoli cinese e giapponese sfatano un altro luogo comune: la scrittura utilizzata non determina o indica il progresso tecnologico e sociale dei popoli.
Qui sopra un esempio di scrittura giapponese.
Il nostro alfabeto arriva a noi dopo lunghe peripezie durate millenni.
La prima forma di alfabeto nasce quasi 4000 anni fa in Egitto. L’egiziano ha dei segni ai quali veniva attribuita valenza fonetica consonantica. Fu con questo stratagemma che gli egiziani poterono scrivere parole e nomi che non appartenevano alla propria lingua. Qui di seguito il modo in cui veniva scritto il nome della regina Cleopatra appartenente alla dinastia greca dei Tolomei.
L’ebraico viene scritto con un alfabeto composto da 22 consonanti, mancando sostanzialmente delle vocali. Anche l’alfabeto aramaico che dall’anno 1000 a.C. in avanti incominciò ad essere diffuso in tutto il medio-oriente insieme alla lingua che lo aveva adottato, mancava delle vocali. Il risultato dell’incontro della cultura ebraica con la scrittura aramaica durante l’esilio babilonese (607-537 a.C.) ha dato luogo alla forma di alfabeto ebraico che ci è familiare e che è tutt’oggi in uso nello stato di Israele.
Nessuna forma di scrittura conosciuta, per quanto sofisticata o pratica possa essere, può rappresentare e tramandare in maniera univoca il suono di una o più parole.
Noi italiani siamo abbastanza fortunati: siamo un’eccezione alla regola e la nostra lingua si pronuncia sostanzialmente come si scrive. E’ però anche vero che per poterla leggere correttamente è comunque indispensabile l’ausilio della voce umana. Se si perdesse traccia della nostra civiltà, un archeologo del 10.000 d.C. non avrebbe maggiore vantaggio dal ritrovamento di incisioni nel nostro alfabeto di quanto non ne abbiamo avuto dal ritrovamento di scritte in egiziano antico!
Senza nessuno che tramandi la lettura corretta delle parole, anche se rappresentate col nostro alfabeto, queste diventano solo disegni incomprensibili.
Merita menzione il dramma (che gli italiani viviamo quotidianamente) dell’impatto con la lingua inglese, diffusissima ma oggettivamente complessa per la maniera in cui l’alfabeto ne rappresenta graficamente il suono. Parole come “stand up” o l’espressione “cool” o “I like” non potranno essere lette in maniera corretta da un italiano o da un tedesco se non dopo averne sentito la pronuncia da chi conosce la lingua inglese.
Come leggere il greco antico?
Gli scritti di Shakespeare vengono oggi letti o recitati nell’unico accento che conosciamo della lingua inglese.
L’Antico Testamento in ebraico viene letto con la pronuncia corrente di quella lingua. Quanto questa possa essere vicina a quella dell’ebraico parlato da Mosè, Davide o Geremia non ci è dato saperlo.
Per chiudere questa nostra lunga discussione, quindi, alla luce delle tante premesse che ho fatto, ritengo doveroso utilizzare la pronuncia del greco moderno anche nella lettura del greco antico.
Non conosciamo la pronuncia originale del greco di Omero o di quello del Nuovo Testamento e non la conosceremo mai. Ma sappiamo come oggi vengono lette le parole dagli eredi diretti di quel linguaggio e non vi è maniera più rispettosa di pronunciare le parole che incontriamo scritte in quella forma di alfabeto se non quella di chi lo considera a buon diritto parte inscindibile del proprio patrimonio culturale.
Una serie di video su youtube propongono la pronuncia moderna per il greco del Nuovo Testamento. Comprendo che ciò possa essere più impegnativo del metodo utilizzato nelle varie scuole, ma sono convinto che valga davvero la pena completare lo studio di questa stupenda lingua leggendola con l’unica pronuncia davvero greca che ne conosciamo.
Guarda questo video dove si legge l’inizio del vangelo di Matteo in greco con pronuncia del greco moderno.
Purtroppo si è diffusa con un entusiasmo ingiustificato la convinzione che l’acronimo della scritta sulla croce di Gesù come citato da Giovanni 19:19 sia niente meno che il nome divino (YHWH) rivelato a Mosè. Purtroppo questa affermazione è infondata ed invito chiunque se ne faccia promotore a consultare attentamente l’affidabilità delle fonti alle quali fa riferimento ed evitare di farsi trascinare da ingiustificabili entusiasmi, dannosi all’evangelo ed alla causa di Cristo.
Nel 2015 avevo già letto di questa “interpretazione” e ne ho ampiamente discusso con un uomo di Dio, il quale anche lui trascinato da tanto entusiasmo, nella sua buona fede, non conoscendo l’ebraico, dava per scontata la preparazione di chi l’ha partorita. Ho preso il Nuovo Testamento in una traduzione in ebraico e gli ho semplicemente mostrato Giovanni 19:19 in quella lingua: non compare nessun tetragramma!
Esaminiamo la scritta nelle sue varie lingue.
ITALIANO
Pilato fece pure un’iscrizione e la pose sulla croce. V’era scritto:
Per far uscir fuori il Tetragramma, ecco come bisogna tradurre Giovanni 19:19.
הַיְּהוּדִים
ומֶלֶךְ
הַנָּצְרִי
שׁוּעַיֵ
dei giudei
e re
il nazareno
Gesù
Come vedete, alla parola “re” viene premessa la consonante “waw” ( ו ), la congiunzione ebraica. Cambia così la traduzione del testo che diventa: “Gesù il nazareno e re dei giudei”. Ma non è quello che dice il testo greco originale, è una forzatura. In questo modo soltanto, accostando le iniziali delle quattro parole, avremo il Tetragramma.
יהוה
Tempo fa mi trovavo a parlare con un fratello circa un brano della Bibbia del quale lui proponeva una traduzione un po’ singolare, ciò perché diceva di preferirne la versione inglese, che a modo suo “italianizzava”. Gli feci presente il suo modo di tradurre era doppiamente errato, perché non era fedele al testo greco originale, ma nemmeno a quello in inglese – lingua che non conosceva a sufficienza da poter tradurre correttamente. Ciò non sortì alcun risultato e, sebbene sia una cara persona, si ostinò a voler continuare nella sua idea. Me ne dispiacqui, ma di più non potei fare.
Anche Lutero nel tradurre un brano della sua Bibbia si fece prendere la mano. In Romani 3:18 aggiunse l’avverbio allein (solamente) che non si trova nel testo originale.
Ho scritto questo articolo per diversi motivi.
È così che apprendiamo la Verità, andando ad esaminare il testo biblico con metodi quasi cabalistici? Che principi di esegesi sono questi, quali brano biblico li sostiene e motiva?
Non scuote le certezze di chi partorisce certe affermazioni il fatto che per duemila anni NESSUNO fra gli interpreti e studiosi della Parola di Dio, di ogni provenienza e livello culturale, abbia mai sostenuto qualcosa di simile?
Ci rendiamo conto di quale responsabilità abbiamo nei confronti dei credenti più semplici che non possono avere accesso al testo originale? Io vi assicuro che sento un grande peso ogni volta che scrivo su argomenti tanto delicati e sono molte di più le cose che non scrivo che quelle che scrivo, perché prima di parlare conto fino a cento, ma prima di scrivere fino ad un milione.
Per chi parla inglese consiglio un sito web molto bello, tenuto da un credente che ama l’ebraico e lo presenta al popolo cristiano con grande semplicità e competenza. Ho visto che la sua posizione in materia è esattamente uguale alla mia e ciò mi ha ulteriormente spinto a scrivere su questo argomento. Questo il link al suo commento.
Visti i tanti brani che attestano la divinità di Gesù e con tanti meravigliosi spunti di riflessione che ci offre la Scrittura, la nostra fede sul Dio fattosi uomo non può poggiare su motivazioni inconsistenti o interpretazioni fantasiose, ma deve essere frutto di una sana ed intelligente interpretazione della Bibbia, ragionata in preghiera e guidata dallo Spirito Santo.
Finora abbiamo discusso in maniera “seria” delle lingue originali della Bibbia. Eppure conoscere l’ebraico ed il greco biblici può anche aiutare a capire fenomeni sociali e culturali che nascondono dei significati altrimenti meno facilmente rintracciabili.
Superman è considerato il primo supereroe della storia dei fumetti. La sua prima avventura venne pubblicata nel giugno del 1938 sulle pagine del n.1 della rivista a fumetti “Action Comics” che lo vide subito in copertina.
Action Comics viene ancora oggi pubblicato con successo dalla DC Comics che ha da poco festeggiato il numero 1.000 – e per una rivista mensile non è traguardo da poco.
Tanti i motivi del successo di Superman e della figura del supereroe in genere, diffusasi negli anni a seguire, dando origine letteralmente a centinaia di personaggi: Batman, Capitan Marvel, Spiderman, Fantastici Quattro, Avengers, ecc.
Il successo immediato di Superman presso il grande pubblico è senz’altro dovuto alla popolarità della concezione ebraico-cristiana di un “Messia”, un essere dotato di potere sovrannaturale che viene dal cielo per salvare l’umanità. Se a prima vista potremmo pensare che si tratti di una coincidenza, approfondendo, invece, vedremo che di una coincidenza non si tratta.
Jerry Siegel era di famiglia ebraica ed è cresciuto in un sobborgo ebraico di Glenville, dove conobbe Joe Shuster, con il quale creò Superman.
Superman cade dal cielo. È dotato di poteri superiori alla norma e li usa per difendere i deboli e la giustizia, perché la sua personalità è votata al bene senza compromessi ed al servizio del prossimo.
Sulla terra l’alter-ego di Superman assume l’identità di Clark Kent, timido giornalista. Ma il vero nome “alieno” dell’eroe è Kal-El. El (אל) è una parola ebraica che viene tradotta “Dio” ed è anche utilizzata, nella forma al plurale, per la prima designazione di “Dio” in Genesi 1:1, Elohim (אלהים). Kal-El deriva quindi apertamente dall’ebraico “voce di Dio”.
La parola Krypton, usata per il pianeta di origine del supereroe, invece, è di origine greca e significa “nascosto”. Il padre di Superman, Jor-El che prova invano a salvare il suo popolo dalla distruzione, ricorda molto da vicino i profeti ebraici che, in maniera altrettanto frustrante, hanno provato a mettere in guardia il popolo di Israele nei periodi di grande crisi della sua storia.
Che dire poi del grande nemico di Superman, Lex Luthor?
Adesso dobbiamo ricordarci che l’ebraico si scrive con soltanto le consonanti. Togliendo le vocali Luthor diventa LTHR. Non è certamente una coincidenza che queste quattro consonanti si ritrovino anche nel nome del nemico più grande del popolo ebraico, HiTLeR. Cambiando le vocali di Hitler ed invertendo il senso di lettura delle prime tre consonanti, ne verrà fuori proprio Luthor.
A mio avviso, se i supereroi hanno così tanta e sicura presa sull’immaginario collettivo ciò è almeno in parte dovuto ai richiami alla sensibilità religiosa collettiva evocata dai riferimenti ebraico-cristiani del suo archetipo, Superman.
Avete mai letto nella Bibbia di un giorno chiamato lunedì? Avete letto: “era martedì”? Non credo, non se utilizzate una traduzione letterale della Bibbia.
Come mai ciò non accade, in tutto l’Antico e il Nuovo Testamento? Ve lo siete mai chiesto il perché?
La semplice risposta è che in ebraico i giorni della settimana non hanno dei nomi come i nostri, dedicati, in genere, ai pianeti o a divinità pagane, ma sono identificati con dei numeri.
La domenica è il primo giorno della settimana, nel calendario ebraico, così come nei paesi anglo-sassoni.
Nome in italiano
Nome ebraico
Traduzione letterale
Domenica
ראשון
Primo
Lunedì
שני
Secondo
Martedì
שלישי
Terzo
Mercoledì
רביעי
Quarto
Giovedì
חמישי
Quinto
Venerdì
שישי
Sesto
Sabato
שבת
Sabato
Ciò accade anche in greco moderno, che vediamo in qualche modo collegato all’uso ebraico. Infatti i giorni della settimana vengono indicati come segue. (“Giorno” in greco è al femminile e quindi i numeri sono anche loro al femminile.)
italiano
greco
Traduzione letterale
Domenica
Κυριακή
Del Signore
Lunedì
Δευτέρα
Seconda
Martedì
Τρίτη
Terza
Mercoledì
Τετάρτη
Quarta
Giovedì
Πέμπτη
Quinta
Venerdì
Παρασκευή
Sesta
Sabato
Σάββατο
Sabato
Cerchiamo adesso di capire quindi cosa dice esattamente qualche brano del Nuovo Testamento alla luce di queste considerazioni.
“Or Gesù, essendo risuscitato la mattina del primo giorno della settimana, apparve prima a Maria Maddalena, dalla quale aveva scacciato sette demoni”. (Marco 16:9)
Il brano di Marco risente dell’influenza semitica dell’ambiente nel quale è stato composto e parla di “primo giorno della settimana” come il giorno della resurrezione. Alla luce di quanto abbiamo detto potremmo tradurre questo passo meno letteralmente, ma in maniera più comprensibile per il lettore di lingua italiana, come segue:
“Or Gesù, essendo risuscitato di domenica mattina, apparve prima a Maria Maddalena…”
Luca 24:1 e Giovanni 20:1 parlano anch’essi di “primo giorno”.
Atti 20:7 è piuttosto significativo.
“Il primo giorno della settimana, mentre eravamo riuniti per spezzare il pane, Paolo, dovendo partire il giorno seguente, parlava ai discepoli, e prolungò il discorso fino a mezzanotte.”
Anche questo brano potremmo tradurlo meno letteralmente.
“Di domenica, mentre eravamo riuniti per spezzare il pane…”
Si tratta di un primo importante riferimento all’uso delle chiese cristiane di riunirsi la domenica, il giorno della resurrezione del Signore Gesù.
Nell’Apocalisse di Giovanni, che possiamo immaginare composta qualche tempo dopo rispetto ai vangeli, troviamo il “primo giorno” chiamato “giorno del Signore”, Κυριακή.
Traduce così la Diodati Apocalisse 1:10:
“Io era in ispirito nel giorno della Domenica… (ἐν τῇ κυριακῇ ἡμέρᾳ)”.
Meno impegnativo, ma bello da segnalare, il caso di Giovanni 2:1.
Le traduzioni qui rendono il brano con “tre giorni dopo”, o qualcosa di simile. Ma non mi sento di essere del tutto d’accordo. Non vedo la parola “dopo” nel testo greco e se tradotto letteralmente esso dice “nel terzo giorno”.
Sembra un po’ innaturale che appena tre giorni dopo aver chiamato i suoi primi discepoli questi siano addirittura invitati con Gesù e la sua famiglia a delle nozze: “E Gesù pure fu invitato con i suoi discepoli alle nozze” (Giovanni 2:2)
Quindi, alla luce di quanto abbiamo detto finora, ciò potrebbe voler dire “di martedì”.
“For much of Jewish history, the third day of the week (Tuesday) was considered an especially auspicious day for a wedding. This was so because, concerning the account of the third day of creation, the phrase “… and God saw that it was good” (Genesis 1:10,12) appears twice. Therefore, Tuesday is a doubly good day for a wedding.”
Tradotto in italiano: “per la maggior parte della storia ebraica, il terzo giorno della settimana (Martedì) era considerato di particolare auspicio per un matrimonio. Era dovuto al fatto che nel racconto del terzo giorno della creazione, la frase “…. e Dio vide che ciò era buono” (Genesi 1:10,12) compare due volte. Quindi, il Martedì è un giorno doppiamente buono per un matrimonio”.
Ciò mi convince ulteriormente che Giovanni 2:1 debba leggersi nel seguente modo: “E di Martedì vi fu un matrimonio a Cana…”, ovvero, “e un martedì vi fu un matrimonio a Cana…”.
Le sfumature delle lingue originali della Bibbia sono davvero interessanti e l’intrecciarsi di ebraico e greco, ci fa comprendere come la Parola di Dio sia anche un meraviglioso fenomeno letterario, unico nel suo genere.
Sono graditi i vostri appunti, commenti e condivisioni.
Continuiamo i nostri studi sugli originali (ebraico, aramaico e greco) della Bibbia. Rimaniamo ancora su Matteo.
Vorrei che questo studio che presento non venga visto come un sostegno per certe interpretazioni estreme ebraiche (cabalà) o, peggio, discipline esoteriche (numerologia). Come spesso constatiamo il diavolo scimmiotta e perverte meravigliose realtà della parola di Dio per sedurre e confondere. Ma se ci atteniamo alla Scrittura senza fantasticare ed andare oltre, non potremo mai sbagliare.
Matteo è intriso di cultura ebraica. Abbiamo visto il riflesso dell’uso semitico nel greco originale di Matteo e nelle traduzioni letterali già dal suo primo verso. Sembra un dettaglio di scarsa importanza. Non lo è affatto, invece. Perché più semitici sono i vangeli, più il loro testo dimostra:
1) La loro autenticità – provengono dal mondo ebraico dal quale la Chiesa si staccherà davvero solo dopo il 70 d.C.
2) La loro antichità – le date tradizionali sono oggi di nuovo le più attendibili, quelle che fanno risalire al periodo apostolico la loro composizione;
3) La loro attendibilità storica – screditata da chi è interessato in ogni modo a demolire in questo modo in maniera indiretta l’autorità spirituale della Parola di Dio.
Il capitolo 1 di Matteo è una noiosissima lista di nomi che spesso saltiamo – dai, siamo onesti! Le genealogie non sono lì per la lettura, comunque, ma per lo studio. Almeno una volta, però, meglio dargli un’occhiata; sebbene, oggettivamente, nella semplice lettura e meditazione quotidiana della Parola di Dio possono risultare di poca utilità. Eppure se il Signore le ha ispirate e volute parte della Bibbia deve esserci un motivo – E un motivo c’è!
Dopo aver elencato 42 “generazioni” fino a Gesù, scrive significativamente Matteo:
“Così, da Abraamo fino a Davide sono in tutto quattordici generazioni; da Davide fino alla deportazione in Babilonia, quattordici generazioni; e dalla deportazione in Babilonia fino a Cristo, quattordici generazioni.” (Nuova Riveduta)
Quante volte abbiamo letto questi versi e ci siamo chiesti cosa davvero volesse dire Matteo? Io quasi ogni volta che aprivo le prime pagine del Nuovo Testamento. E siccome Dio risponde se noi chiediamo, tanto ho chiesto che mi ha risposto – ne sono convinto. La differenza fra chi comprende la Bibbia e chi non la comprende non è nell’intelligenza o nella sapienza umana che si possiede. Per questo quando apro la Bibbia mi affido totalmente a Dio, perché Egli non nasconde i significati della Sua Parola a chi lo ama.
Guardate nello stesso Vangelo di Matteo. Qual è la differenza fra i discepoli di Gesù e gli altri? Nella loro intelligenza o livello culturale? Non credo – sebbene non fossero degli stupidi ignoranti come alcuni a volte li dipingono. Loro si avvicinavano al Maestro e lo interrogavano, chiedevano, con fede, non come coloro che lo volevano solo mettere alla prova, ma con profondo amore ed un cuore aperto, per conoscere la volontà di Dio. Vedi Matteo 13.
Da Abramo, padre della nazione ebraica a Davide, primo re che unifica il regno e lo rende forte e stabile, vi sono 14 generazioni.
Attraverso Samuele Dio promette a Davide:
“Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu riposerai con i tuoi padri, io innalzerò al trono dopo di te la tua discendenza, il figlio che sarà uscito da te, e stabilirò saldamente il suo regno. Egli costruirà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno. Io sarò per lui un padre ed egli mi sarà figlio; e, se fa del male, lo castigherò con vergate da uomini e con colpi da figli di uomini, ma la mia grazia non si ritirerà da lui, come si è ritirata da Saul, che io ho rimosso davanti a te. La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a te e il tuo trono sarà reso stabile per sempre”
Troviamo qui la promessa del futuro Messia (Unto, Cristo) che sarebbe venuto ed avrebbe regnato sul trono di Davide per sempre.
Forse per noi non è così semplice comprendere il fatto che alle lettere dell’alfabeto ebraico vanno associati dei numeri. Questo perché nella nostra lingua i numeri e le lettere sono distinti. Così non era in ebraico (e nemmeno in greco). Noi utilizziamo i numeri arabi per esprimere le cifre del nostro sistema decimale. In ebraico anche questo compito spettava alle ventidue consonanti che ne compongono l’alfabeto.
Come si scrive Davide in ebraico?
Come ho già evidenziato l’ebraico si legge da destra verso sinistra, ma proprio in questo caso ciò è ininfluente.
Andiamo a considerare il valore numerico delle singole lettere della parola e considerarne il valore complessivo.
ד (4) ו (6) ד (4)
4 + 6 +4 = 14
14 + 14 + 14 = 42. Dove troviamo questo numero altrove nella Scrittura?
1 Samuele 13:1 ci dice che 42 furono gli anni che regnò Saul. Quindi 42 ci parla del periodo di attesa fino alla comparsa di Davide come re – unto di Dio. Unto è la traduzione italiana della parola ebraica “Messia” e di quella greca “Cristo”.
Anche la lista delle generazioni da Abramo fino a Gesù dimostra che lui è il Messia promesso ad Israele! Matteo, il perfetto piano di Dio nella storia e lo Spirito Santo lo testimoniano: non vi è nessun altro che dobbiamo attendere, Gesù era colui che le Scritture annunciavano dalle prime pagine della Genesi (vedi Genesi 3:15).
Così, da Abraamo fino a Davide sono in tutto quattordici generazioni;
Fino alla comparsa del primo grande re di Israele trascorrono 14 generazioni
da Davide fino alla deportazione in Babilonia, quattordici generazioni;
Per 14 generazioni la stirpe di Davide regna, finché il popolo viene deportato in Babilonia.
e dalla deportazione in Babilonia fino a Cristo, quattordici generazioni
Dopo quel evento nessun discendente davidico regna in Israele. Fino alla nascita di Gesù del quale diceva giustamente la scritta sulla croce: “Questo è Gesù, il re dei Giudei” (Matteo 27:37)
Traggo dal sito www.hebrew4christians.com la tavola dove viene specificato il valore numerico delle consonanti dell’alfabeto ebraico.
Sappiamo tutti che Matteo era un ebreo e, a giudicare dal suo status sociale, doveva anche essere un uomo di cultura. Ciò è in perfetta armonia con la meravigliosa opera letteraria che è il suo Vangelo.
Il vangelo di Matteo è giunto a noi in greco, ma ciò non è incompatibile con l’esistenza di un originale ebraico, del quale si parla dall’alba della storia della Chiesa. Vi è un Matteo in realtà presente nella tradizione ebraica, inserito e preservato in una confutazione medievale del cristianesimo da parte di un giudeo. Questo testo è stato pubblicato da George Howard tempo fa ed è davvero una ulteriore meravigliosa testimonianza dell’importanza storico – letteraria, oltre che religiosa, degli scritti biblici.
La cosa più emozionante della divina ispirazione della Bibbia è, a mio avviso, l’armoniosa collaborazione dello Spirito Santo con l’autore biblico, che, se guardiamo il testo biblico senza pregiudizi, compare nelle pagine della Sacra Scrittura in maniera così evidente. Non è stata una dettatura meccanica, ma un meraviglioso confluire del divino nell’umano.
Matteo 1:1 è talmente intriso di cultura ebraica da mettere in imbarazzo i traduttori. Infatti, si ricorre a diverse soluzioni.
DIODATI: LIBRO della generazione di Gesù Cristo, figliuolo di Davide, figliuolo di Abrahamo.
NUOVA DIODATI: Libro della genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abrahamo.
CEI: Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo
NUOVA RIVEDUTA: Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abraamo
La traduzione letterale è quella della Diodati e della Nuova Diodati. Le altre cercano di rendere il testo più comprensibile al lettore italiano.
Ma cosa vuol dire “Libro della generazione”, ovvero della “genealogia”. Questa frase, nella sua letteralità, significa poco in italiano. Lo stesso vale per il testo originale greco a dire il vero. Per comprenderne il senso appieno dobbiamo guardare l’Antico Testamento.
Genesi 5:1
“Questo è il libro della genealogia di Adamo (Nuova Riveduta)
“Questo è il libro della discendenza di Adamo” (Nuova Diodati)
La parola che traduciamo nella nostra lingua con “libro” corrisponde ad un vocabolo ebraico (סֵפֶר, sefer) che ha un significato senz’altro più ampio. Dobbiamo quindi in questo caso evitare di associare “libro” all’immagine cui inevitabilmente rimanda questa parola nella nostra lingua oggi. Del resto i “libri”, come li conosciamo noi, nell’antichità non ne esistevano.
Cosa implichi l’espressione “libro della generazione” nella Genesi è oggetto di dibattito e non è del tutto chiaro. Ciò, però, ha poca rilevanza per la nostra discussione ed in questo contesto. Qui, infatti, ci basta la consapevolezza del gusto del tutto ebraico dell’affermazione di Matteo, un’affermazione che volutamente vuole riagganciarsi all’ebraico ed alla Torah. Forse non è un caso che la prima volta che l’espressione che egli usa si rinvenga proprio in Genesi 5:1, dove si parla della discendenza di Adamo: l’evangelista infatti sta elencando gli ascendenti del “nuovo” Adamo, Gesù Cristo.
Nella seconda parte del verso è chiaro che “figlio di Davide” è da intendersi come “discendente di Davide” e lo stesso vale per “figlio di Abraamo”. La stessa espressione la troviamo diverse volte nei vangeli. Qualche verso più avanti lo stesso Giuseppe è chiamato “figlio”, discendente, di Davide in Matteo 1:20.
L’autentico significato della parola “figlio” utilizzata in questo contesto non è da cercarsi nelle lingue indo-europee, dove “figlio” indica solo un rapporto di diretta discendenza, bensì nel sostrato semitico (ebraico) della Bibbia, vivo e vegeto anche nel Nuovo Testamento. Diversi gli esempi da addurre. Per citarne i più eclatanti: Mt 3:9, 5:9, Gv 8:39, 8:44, 2 Tess 2:3, e molti altri. Per non parlare del titolo messianico di “figlio dell’uomo”!
È davvero significativo il dialogo di Gesù con i religiosi del suo tempo.
“Essendo i farisei riuniti, Gesù li interrogò, dicendo: “Che cosa pensate del Cristo? Di chi è figlio?” Essi gli risposero: “Di Davide”. Ed egli a loro: “Come mai dunque Davide, ispirato dallo Spirito, lo chiama Signore, dicendo: “Il Signore ha detto al mio Signore: ‘Siedi alla mia destra finché io abbia messo i tuoi nemici sotto i tuoi piedi?'” Se dunque Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?” E nessuno poteva replicargli parola; da quel giorno nessuno ardì più interrogarlo.” (Matteo 22:41-46)
Gesù non era infatti soltanto un discendente della stirpe regale di Davide, ma anche la Parola fatto uomo, Dio incarnato, ed è per questo che già dall’Antico Testamento il Messia è chiamato Signore.
Abbiamo appena cominciato. Negli articoli a venire discuteremo di altri meravigliosi e profondi significati nascosti nelle lingue originali della Bibbia.
Se avete dei quesiti, sarò ben lieto di rispondervi, per quanto mi sarà possibile.
Mi trovo a scrivere articoli come questo per necessità più che per stimoli personali. Riconosco che vi è un bisogno e quando mi viene posta una domanda, i miei studi hanno un senso se riesco ad aiutare a capire gli altri credenti.
Un mio contatto facebook mi ha informato che un Testimone di Geova le ha spiegato che in Giovanni 1:1 è scritto che “Nel principio la Parola era” e che quindi se “era” IN PRINCIPIO, la Parola, Gesù prima di incarnarsi, ha un inizio, è stato creato, e non può essere Dio, che è eterno.
Non so se le parole della conversazione come le riporto io rispecchino la posizione ufficiale della Torre di Guardia su questo argomento. Ma rimane il fatto che mi si sono state chieste delucidazioni in merito a questa affermazione e vorrei darle qui per iscritto.
La parola “eterno/a/e/i” esprime un concetto astratto. L’eternità la possiamo immaginare o descrivere solo quando possediamo un linguaggio evoluto ed una mente elastica. La parola “eterno” implica qualcosa che non ha fine. Dio ci dà la vita eterna in Cristo, ad esempio. È una vita che non ha fine. Ha un inizio, ma non ha fine. Quindi se la Scrittura dicesse che il Figlio di Dio è “eterno” non avrebbe comunque affermato che Egli non abbia avuto un inizio, non sia stato creato, perché anche noi che abbiamo avuto un inizio abbiamo vita eterna.
“Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.” (Giovanni 3:16)
Il termine “eterno” in sé, quindi, non basterebbe definire l’eternità in senso assoluto, l’assenza di principio, perché si concentra sulla durata indefinita, e non chiarisce se vi è o meno un inizio.
In parole povere, anche se il testo biblico dicesse “il Figlio di Dio è eterno”, i testimoni di Geova potrebbero facilmente dimostrare che ciò non implica necessariamente che la sua esistenza non abbia avuto un inizio.
La Scrittura usa un linguaggio che non lascia spazio a fraintendimenti.
Una delle espressioni è proprio in Giovanni 1:1, “In principio era la Parola”.
Perché “In principio”? Perché il brano di Giovanni ci porta alla creazione che in Genesi viene descritta proprio con “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Genesi 1:1). È quello il momento più lontano dove può arrivare la nostra mente, e prima di quel momento il tempo stesso non esisteva. In Ebrei 1:2 c’è una frase molto difficile da tradurre, che le versioni bibliche rendono in vari modi:
– per mezzo del quale (il Figlio) ha anche fatto l’universo (Nuova Diodati)
– mediante il quale ha pure creato i mondi (Nuova Riveduta)
– per mezzo del quale ha fatto anche il mondo (C.E.I.)
– per lo quale ha ancora fatti i secoli (Diodati)
– mediante il quale ha fatto i sistemi di cose (Traduzione del Nuovo Mondo, 2013)
Il testo originale legge: δι᾿ οὗ καὶ τοὺς αἰῶνας ἐποίησεν (di u kai tus aionas epoiesen)
“αἰῶνας” (che qui è tradotto: sistemi di cose, mondo, universo; meglio ancora: secoli) è in greco la stessa parola usata per descrivere l’eternità. In parole povere il Figlio di Dio esisteva prima che il tempo fosse creato perché egli stesso lo ha creato quando, per mezzo di lui, Dio ha creato l’universo in cui viviamo.
Quindi il riferimento “in principio” in Giovanni è alla creazione di tutte le cose. Prima di quel momento vi era solo l’eternità, ma già allora “la Parola”, Gesù prima che diventasse uomo, era! Non viene detto: “In principio Dio creò la Parola e tramite la Parola poi creò ogni altra cosa”. Il testo non dice così. Al contrario dice la Parola esisteva quando il tempo stesso venne creato, cioè “in principio”, e che tramite la Parola tutte le cose – tutte le cose! – sono state create.
L’italiano “era” di Giovanni 1:1 è nell’originale greco il verbo εἰμί (eimì) al tempo imperfetto, “era”, che corrisponde in greco ad “ἦν” (en), anch’esso imperfetto – anche se la valenza dei verbi greci non è sempre esattamente uguale a quella dei nostri.
Poco più in avanti, troviamo un’espressione che va naturalmente ad interfacciarsi con questa prima.
πάντα δι᾿ αὐτοῦ ἐγένετο (panta di autu egheneto)
che in italiano sarebbe: “tutte le cose furono per mezzo di lei.”
Giovanni – chiaramente di proposito! – utilizza due verbi, entrambi atti a descrivere l’“essere”, per chiarire che la Parola è in modo diverso da come è la Creazione. “La Parola era in principio”, cioè esisteva già quando, appunto “in principio” (Genesi 1:1), Dio, attraverso di lei, ha creato ogni cosa che è stata creata.
“Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lei”, quindi, per mezzo della Parola. La frase “Tutte le cose”, tradotta anche “ogni cosa”, implica che non vi è una cosa creata che non sia stata creata per mezzo di lei. Come se non bastasse, con un gusto tutto ebraico di bilanciare una frase affermativa con una frase seguente che esprime uno stesso concetto in maniera negativa, l’apostolo aggiunge:
“e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta.”
Vi sono due modi per discutere un argomento relativo ad un problema di traduzione. Quello adottato dai Testimoni di Geova è il più banale, sebbene impressioni chi non ha dimestichezza con lo studio delle lingue e, nel caso particolare, chi non conosca il greco biblico e, quindi, non lo legga con regolarità, non gli è familiare. Essi infatti citano dizionari e grammatiche, trascurando il fatto che chi ha scritto quelle opere non condivida le proprie idee. Li citano fuori contesto, proprio come fa chi non sa o chi vuol portare fuori strada chi non sa. Li citano quando non si rendono, o preferiscono non rendersi conto che l’interezza ed il contesto delle citazioni che propongono sono persino contro le loro posizioni.
Un metodo più efficace – restando comunque proficuo l’uso di grammatiche e dizionari all’inizio dello studio di una lingua – è quello di verificare la valenza di un vocabolo all’interno del testo biblico. Meglio ancora se all’interno di scritti del medesimo autore sacro.
Esaminiamo “ἦν” (en) ed “ἐγένετο” (egheneto) di Giovanni 1.
(1) Nel principio era (ἦν)la Parola, la Parola era (ἦν) con Dio, e la Parola era (ἦν) Dio.
(2) Essa era (ἦν) nel principio con Dio.
(3) Ogni cosa è stata fatta (ἐγένετο) per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte (ἐγένετο) è stata fatta.
(4) In lei era (ἦν) la vita
(10) Egli era (ἦν) nel mondo, e il mondo fu fatto (ἐγένετο) per mezzo di lui …
(14) E la Parola è diventata (ἐγένετο) carne …
La grammatica viene scritta osservando il fenomeno linguistico, l’uso dei vocaboli. Non avviene il contrario. Giovanni non aveva una grammatica a sua disposizione da consultare per scrivere il suo vangelo, ma utilizzava le parole secondo l’uso comune per dare un senso il più intellegibile possibile a chi leggeva. Le grammatiche di greco che utilizziamo oggi sono fatte da chi ha studiato i testi antichi ed ha da lì estrapolato regole grammaticali osservando la lingua ed i vocaboli.
Nel brano che stiamo considerando è intuitivo capire perché Giovanni usi un modo per definire l’“essere” con un verbo ed un altro per sottolineare “l’essere-divenire”. Egli dice apertamente che “la Parola” non è mai stata creata, è in senso assoluto, al contrario di tutto ciò che è venuto all’esistenza, che prima non era ed adesso, per mezzo suo, è.
So per esperienza che i Testimoni di Geova non sono inclini a credere a nessuno se non a quelli della loro stessa cerchia. Ma una lingua ha delle regole, una grammatica. In Italia il greco è insegnato nelle scuole pubbliche. Chi vuole può benissimo approfondire e scoprire come stanno davvero le cose – se ha davvero voglia di farlo – trovando un buono professore di greco.
Altrove nello stesso vangelo di Giovanni l’apostolo sottolinea l’eternità di Gesù utilizzando il verbo essere εἰμί (eimì), in Giovanni 8:58.
“Disse loro Gesù: In verità, in verità vi dico: prima che Abraamo fosse (γενέσθαι, stessa radice verbale – γινομαι – che da origine ad ἐγένετο ) io sono (ἐγὼ εἰμί)”.
Sono al corrente di come traduce la Traduzione del Nuovo Mondo in inglese e di come, per coerenza, traduce la versione italiana della Bibbia dei Testimoni di Geova, commettendo un doppio errore di traduzione: dal greco e dall’inglese. Perdendo di vista, o cercando di far perdere di vista l’ovvio: al di là di ogni possibile traduzione l’affermazione di Gesù in greco è comunque “ἐγὼ εἰμί” ed attesta la sua eternità, anche grazie a quel contrasto fra i due verbi “essere” visti in Giovanni 1.
Del resto l’eternità di Dio non è perfettamente descritta nell’espressione: “colui che è, che era (ἦν) e che viene”? (Rivelazione 1:8)